Brasile, la febbre di crescere di Livio Zanotti

Brasile, la febbre di crescere La situazione economica del "gigante,, sudamericano Brasile, la febbre di crescere (Dal nostro inviato speciale) San Paolo, gennaio. Gli eredi dei «baroni del caffè», anziani e raffinati signori, vivono oggi rinserrati in pochi consigli d'amministrazione, ultima trincea di un'opulenza che è stata mitica. Le loro ville sontuosissime spiccano ancora tutt'intorno alla città, nei parchi tropicali che la speculazione edilizia ha ormai aperto al cemento armato. Or non è molto si diceva: «Bisogna conoscere un ricco brasiliano per capire che cosa è un vero ricco». In pochi anni, di questi Cresi del ventesimo secolo s'è quasi perduta la memoria. In Borsa, i loro sono nomi tra gli altri, presso il governo non sempre ottengono udienza. Conservano una situazione patrimoniale invidiabile, ma hanno irrimediabilmente perduto lo scettro dorato di monarchi del potere economico. Le grandi compagnie multinazionali glielo hanno strappato di mano. «Non voglio soci stranieri, non voglio soci brasiliani, non voglio lo Stato come socio. O faccio solo o non faccio», ripeteva «Baby» Pìgnatari, uno dei protagonisti più instancabili delle cronache mondane degli Anni Cinquanta, sempre in prima fila tra via Veneto e la Còte d'Azur. Fedele alla sua filosofia «protoliberista», Francisco Pignatari si era lanciato, solo, nell'impresa di sfruttare i giacimenti di rame della regione di Bahia, i più importanti del Brasile. Durante tre anni ha resistito al governo che gli ha negato sistematicamente cre¬ diti privilegiati e alle offertecapestro della nordamericana Bethlehem Cooper. L'altro giorno, stretto da insolubili difficoltà finanziarie, ha annunciato che regala tutto allo Stato, impianti, crediti e debiti. In cambio non pretende un centesimo. Preferisce chiudere nel suo stile splendido. Gigantismo «Lo Stato non può farsi carico della mancanza di dinamismo di taluni impresari», ha dichiarato recentemente il governo, replicando indirettamente ai malumori espressi da certi ambienti industriali meno legati al capitale internazionale. Il nuovo ministro dell'Economia, Mario Emique Simonsen, 39 anni, professore dell'università di San Paolo a 25 ed ex banchiere al pari del suo predecessore Delfim Netto, non fa mistero dei problemi che il Brasile si trova ad affrontare in questo momento di crisi mondiale e del prezzo che a questa sta pagando. Alla fine di quest'anno, la bilancia dei pagamenti segnerà un passivo di mille milioni netti di dollari. Le riserve brasiliane passeranno dùnque da 6 mila cinquecento milioni di dollari a 5 mila cinquecento. Le casse della federazione restano ben fornite, ma la decapitalizzazione subita in soli dodici mesi è forte. A preoccupare Simonsen e il suo brain trust, tuttavia, non sono tanto queste cifre quanto la tendenza di tutti i bilanci pubblici ad un gigantismo assai difficile da programmare, ora che il Paese sta in bilico con un piede nella periferia e l'altro in pieno centro del sistema geo-economico internazionale. Scontata tina riduzione drastica del tasso di sviluppo, indicato da varie parti in un 5 e mezzo, 6 per cento nel prossimo anno (contro V11.4 del 1973 e il 7 dell'anno che sta per chiudersi), il governo tenta di controllare l'inflazione restringendo il credito. Intanto manovra per attirare nuovi capitali stranieri e soprattutto i miliardi già a metà promessi dagli sceicchi arabi del petrolio. I teorici dello «sviluppo accelerato» sono perciò tornati al lavoro, per rivedere una formula che ormai mostra la corda o concepirne un'altra. I punti di vista, spesso divergenti sulle misure da adottare nell'immediato, coincidono sull'origine lontana dei mali. Alla radice dello squilibrio degli ultimi trent'anni c'è l'antica disequazione tra città e campagna, tra industria e agricoltura. I colonizzatori portoghesi che approdarono da queste parti allo spirare del quindicesimo secolo erano militari o funzionari della corona imperiale, cioè gente senza alcuna esperienza di lavoro produttivo. Si ripartirono le terre con un criterio feudale, inventandosi fazenderos e puntando tutto sullo sfruttamento degli schiavi e sulle colture estensive, la plantation, niente affatto preoccupati di conservare o migliorare la qualità del terreno e dei suoi prodotti. Più tardi, i bandeirantes, i pionieri che, bandeira in testa, si addentrarono nell'interno attratti dalle pietre preziose, dall'oro alluvionale, dagli indios da fare prigionieri e dalle loro terre da vendere ai latifondisti, fondarono qualche piccolo centro abitato per farne stazioni di posta. Il mondo urbano rimase però ancoralo sostanzialmente alla costa. Con la rivoluzione del 1930, San Paolo è il primo Stato a rompere l'accerchiamento del potere agrario feudale e a fondare l'industria moderna. Getulio Vargas e i suoi generali nazionalisti riservano allo Stato la siderurgia, il petrolio, l'energia elettrica, lo sfruttamento delle miniere, favorendo l'iniziativa privata nell'industria leggera. Ventanni dopo, a sollecitare una nuova espansione della industria giunge il presidente Juscelino Kubitschek, che, ostacolato dalla congiuntura internazionale sfavorevole, pur di rilanciare lo sviluppo apre alle grandi corporations nordamericane il mercato brasi¬ liano rimasto fino a quel momento relativamente protetto. Un'incontenibile inflazione accompagna la politica di Kubitschek e porta l'economia del Paese ad uno stallo, che invano tentano di superare Janio Quadros prima e poi Joao Goulart. Sono i tempi drammatici dei flagelados, che vittime della siccità nelle campagne vengono ad arruolarsi nei battaglioni di disoccupati ammassati l'uno sull'altro nelle misere favelas delle grandi città, all'inutile ricerca di un lavoro. Il governatore di Rio de Janeiro, Carlos Lacerda, conservatore e demagogo, dichiara guerra a ladruncoli ed accattoni in una campagna di «risanamento della capitale». Alla sua ombra nasce lo «squadrone della morte». Un celebre umorista del macabro riassume il perìodo in una battuta che tutti ricordano: «Combatti la povertà, ammazza un mendicante». Investimenti L'intervento militare dell'aprile 1964 pone fine con la forza ai contraddittori tentativi riformisti di Goulart e instaura l'epoca del silenzio politico e del pragmatismo economico. In mancanza di un'ideologia, il Paese viene governato all'insegna di slogans che esaltano «lo sviluppo a tutti i costi». Il generale Humberto Castello Branco ne affida la prima pianificazione a Roberto Campos, un austero ex seminarista che ha lasciato il convento per dedicarsi alla scienza economica. Convinto assertore della legge del massimo profitto è lui che inspira la legislazione che dovrà attrarre in Brasile la maggiore quantità possibile di capitali stranieri, indispensabili a mettere in moto le enormi ricchezze potenziali del Paese. Arrivano dollari, marchi, yen, franchi, lire, una babele dì monete più o meno forti, tutte desiderose di moltiplicarsi. Il governo non risparmia loro le lusinghe, solo fa di tutto per trattenerle quanto più a lungo possibile. Gli investimenti sono praticamente esentasse, ma la riesportazione degli utili è attaccata progressivamente dal fisco. Il Brasile ha fretta di crescere. Quest'anno vuole esportare zucchero per 8 milioni di tonnellate, 18 milioni di sacchi di caffè, soia per un miliardo di dollari e ancora cotone, cacao, automobili, frigoriferi, motori elettrici. Tut to ciò non sarà sufficiente a pagare il petrolio e i metalli, le macchine utensili e i prodotti chimici necessari all'industria, i fertilizzanti per Vagricoltura, la carne e il grano destinati al consumo, che dovranno essere importati. Livio Zanotti

Persone citate: Carlos Lacerda, Cooper, Francisco Pignatari, Humberto Castello Branco, Joao Goulart, Mario Emique Simonsen, Roberto Campos, Vargas

Luoghi citati: Brasile, San Paolo