Christoff, la Cossotto e un grande Don Carlo di Massimo Mila

Christoff, la Cossotto e un grande Don Carlo L'opera di Verdi in scena al Regio Christoff, la Cossotto e un grande Don Carlo Dopo l'inesplicabile serrata durante le feste natalizie, il Regio ha riaperto i battenti per una grandiosa esecuzione del Don Carlo di Verdi che promette d'essere uno dei punti di forza della presente stagione. La messa in scena è quella di cui parlammo lungamente l'anno scorso, quando venne presentata alla Fenice col ripristino dei pezzi inediti, soppressi all'ultimo momento nella prima rappresentazione parigina del 1867 e mai eseguiti in seguito. Questi pezzi non sono stati mantenuti qui a Torino, preferendosi la normale edizione in 5 atti senza balletto, compreso però l'atto iniziale nella foresta di Fontainebleau, che tanta importanza riveste per porre le fondamenta psicologiche del dramma. Il Don Carlo costituisce l'incontro ad alto livello tra Schiller e Verdi, quello nel quale entrambi gli artisti si presentano al massimo delle loro possibilità. Nei tre precedenti (Giovanna d'Arco, Masnadieri, Luisa Miller) né Verdi era ancora il gigante drammatico della piena maturità, né si trattava delle più felici tra le prove teatrali del poeta tedesco. Don Carlo, nonostante qualche macchinosità dell'azione, imputabile a Schiller, è un'opera adulta, nella quale una volta tanto la potenza del .genio verdiano trova pane per i suoi denti e può misurarsi con una materia degna di lei: non è ancora Shakespeare, ma certo non è il teatro dei burattini. L'invito di questa alta meditazione storica il compositore non se lo fa sfuggire: mai, fino allora, la musica di Verdi aveva scandagliato cosi a fondo, e con tanta maturità di comprensione degli opposti, le pieghe più riposte dell'animo umano, nei conflitti tra l'individuo e lo Stato, lo Stato e la chiesa ,il pubblico e il privato, la felicità e il dovere, la libertà e l'ineluttabile necessità della Storia. Opera profondamente politica, di poesia della politica e della Storia, secondo quel gusto tutto terrestre e virile di Verdi per i negotia, cioè per gli affari e per la cosa pubblica: quel gusto che nel Simon Boccanegra gli permetterà di creare una scena immortale musicando l'equivalente d'una seduta alla Camera dei Deputati, e qui nel Don Carlo gli suggerisce un incredibile, fenomenale duetto su un argomento tanto poco «poetico» come il conflitto tra Stato e Chiesa nell'epoca di affermazione delle grandi monarchie europee. Non così l'intende il regista Piero Faggioni, che a quest'opera ha dedicato una meditazione appassionata e ne appare quasi stregato. Per lui, il Don Carlo è opera profondamente religiosa: d'una religiosità libera, ben inteso, e non confessionale, anzi, in antitesi con le istituzioni cattoliche, ma profondamente centrata sull'esperienza del soprannaturale. Quest'opinione, a dir poco, personalissima non perviene tuttavia a compiere grandi danni, salvo una certa sovrabbondanza di genuflessioni, qualche eccesso di simboli, che aumentano la macchinosità schilleriana, e soprattutto il vezzo di voler cominciare l'opera con una rapida anticipazione del chiostro di San Giusto (secondo l'inizio della versione in 4 atti), mentre già risuonano, dissennate, le fanfare dei cacciatori nel bosco di Fontainebleau. Inaccettabile è anche la pretesa di trasferire nel quarto atto la musica che sta all'inizio del quinto. Ma a parte questi nei, l'evidenza dell'opera è tanta, e così sicuro l'istinto teatrale del regista, che non appena cominciano ad emergere i singoli personaggi con le loro contrastanti posizioni, l'azione si snoda in tutta la realistica naturalezza dei suoi fatti terreni e caratteriali. Le scene di Pier Luigi Pizzi la collocano nel clima controriformistico della corte spagnola, in un Escuriale cupo e opprimente. Soltanto la scena del primo atto, con quella foresta di Fontainebleau, non già «immensa e solitaria», ma striminzita in una stilizzazione che fa pensare alla pittura di Casorati, e a pochi passi dal castello, non rende piena giustizia alla funzione di polo positivo, di romanticismo della natura, che il ricordo del felice suolo di Francia svolge lungo tutta l'opera nel personaggio di Elisabetta. A parte questo particolare, grande merito delle scene è di conservare una notevole differenziazione, pur nella costanza d'un impianto scenico che permette rapidissimi cambiamenti a vista (grazie anche all'efficacia della direzione tecnica) riducendo a due soli gli intervalli, che altrimenti sarebbero sette. (Pur così, lo spettacolo dura quattre ore e mezzo; ed è una serata bene impiegata). Come tutti sanno, il Don Carlo è un'opera terribile da eseguire, perché richiede, in parole povere; la presenza di sei grandi cantanti. Ci sono qui al Regio? Direi proprio di sì. Due sono addirittura grandissimi, Boris Christoff e Fiorenza Cossotto, ma tutti sono pari all'altezza del compito. Il tenore Giorgio Casellato Lamberti, nella parte che dà il titolo all'opera (ma di protago¬ nqsdtqsdtdbdascssvadsqarslggccrdst nisti ce ne sono almeno tre, o quattro), incontra una curiosa difficoltà nel primo atto, dove la sua parte è prevalentemente lirica, ma in seguito, quando il personaggio viene sempre più coinvolto nei nodi dell'azione, Casellato Lamberti tira fuori una buona voce di tenore alla Pertile, non un belcantista, ma un tenore drammatico, particolarmente adatto all'espressione degli stati d'animo affannosi che caratterizzano il personaggio. Una belcantista è invece il soprano Rita Orlandi Malaspina, in ottime condizioni di voce, perfettamente a suo agio quando c'è da cantare (e di oasi liriche la parte di Elisabetta ne ha molte), meno quando c'è da recitare e da agire. Il segreto del «cantar recitando» ce l'hanno la Cossotto e Boris Christoff: quella, una Eboli classica, che regge il confronto con le più grandi del passato, questi, che scolpisce un Filippo II colossale. Se poi si va a vedere da vicino qual è il segreto di questo «recitar cantando», si scopre che, a parte un certo naturale prestigio scenico della persona, tutto consiste nel fatto che questi artisti cantano anche le consonanti. (Le erre di Christoff: come un rotolare di carri armati!). Alle prese col personaggio non facile di Rodrigo, l'idealistico e anacronistico fautore della libertà fiamminga, che così facilmente può scivolare nel pompier, il baritono Renato Bruson se la cava molto bene: la voce ha il colore chiaro, simpatico e non torvo che il personaggio richiede, e il modo di porgere è nobile senza affettazione. Il basso Gianfranco Casarini ha ormai condotto a perfezione quel personaggio del Grande Inquisitore, che richiede doti particolarissime di potenza vocale e profondità di registro, e che nel grande duetto con Filippo II assurge ad importanza di antagonista. Fra cotanto senno, anche il nostro De Bortoli dà un bel rilievo alla parte del misterioso frate nella cripta di San Giusto. Graziella Melotti è un vivace paggio Tebaldo, Giovanna Di Rocco la voce dal cielo, I Mario Guggia il conte di Lerma, Fernando Jacopucci un incisivo araldo. E siano ricordati anche i sei deputati fiamminghi (che nel programma di sala son sette). Questo enorme macchinone musicale il direttore Bruno Bartoletti governa con quella sua lucida finezza, un po' felina, tutta di nervi più che di muscolo, che dà l'impressione della forza pur rifuggendo dal gran baccano. L'orchestra e il coro, istruito dal maestro Fanfani, hanno di nuovo raccolto un po' di ruggine nella pausa festiva, ma non tarderanno a riacquistare il rodaggio cui già si stavano avviando nei primi due spettacoli della stagione. Ineccepibili, però, le prime parti dell'orchestra che la partitura impegna talvolta in esposti ruoli solistici (violoncello, corni, trombe). Grande successo, con frequenti applausi a scena aperta per i personaggi principali e grandi acclamazioni a tutti i numerosi e meritevoli artefici d'uno spettacolo che costituisce un avvenimento importante nella vita culturale della città. Massimo Mila

Luoghi citati: Eboli, Francia, Lerma, Torino