II grande esodo dal Salento di Francesco Rosso

II grande esodo dal Salento LO STRANO BOOM DELLA PUGLIA; LECCE II grande esodo dal Salento L'arretratezza dell'agricoltura, gli scarsi redditi hanno provocato un'emigrazione senza pari: sono questi esuli che hanno raddrizzato l'economia con le loro rimesse - Nobiltà e metamorfosi dei vini leccesi (Dal nostro inviato speciale) Lecce, gennaio. Frustrazione, ira impotente, burbanza pacchiana sono le componenti della società leccese nata dal tumultuoso sviluppo della città negli ultimi vent'anni, sviluppo che ha rimescolato i vari ceti che la componevano deprimendo quelli che un tempo le conferivano tono, dando slancio alla nuoi'u classe dei contadini inurbati che nella speculazione edilizia hanno intravisto, ed hanno trovato, facile a,ricchimento. Bisogna tener conto di questi stati d'animo se si vuol comprendere la realtà di Lecce, città composita, fiera in passato di esser definita la «Firenze del Sud», e òggi indifferente alle attività culturali che le diedero giusta fama. C'era un «Premio Salento» che aveva vasta rinomanza nazionale, lo avevano ricevuto Pavese, Vittorini, Calvino, ma nel 1960 fu soppresso. « Non ci riscattava dal provincialismo in cui affoghiamo, mi dice il prof. Ennio Bonea, preside della facoltà di Lettere, però apriva un circuito di cultura che ci dava un po' di ossigeno ». Siamo nella bella libreria di Mimmo Carbone, attorno a cui ruota la vita culturale di Lecce. Volendo, si potrebbe fare una radiografia della città senza muoversi dai ben forniti scaffali, tutti coloro che a Lecce contano nella vita politica e culturale passano di lì, e il dialogo con loro è facile. Ho parlato di frustrazione, e credo sia l'aspetto più vistoso di questa città immobile per certi aspetti, soprattutto nella popolazione, 82 mila abitanti nel 1961, 85 mila oggi, eppoi grossolanamente rivoluzionaria nei ceti emergenti, ma anche rabbiosa per certe limitazioni giunte in ritardo a porre un freno alla scandalosa speculazione edilizia che ha chiuso in un cerchio di brutture quella che fu la splendida capitale della Terra d'Otranto, quella Lecce normanna e barocca che si incastonava come gemma nelle mura fatte erigere da Carlo V. Di quella Lecce che per iniziative culturali, eleganza del vivere si sentiva pari a Napoli, che snobbava con aristocratica indifferenza la mercantilistica Bari, oggi esiste ben poco. I grandi agrari di un tempo che lasciavano al fattore la con- duzione dei latifondi coltivati a olivi, vite, mandorli e trascorrevano le stagioni nei palazzotti chiusi come fortezza, e le notti al circolo dove taluni perdevano al gioco in poche ore una intera fattoria, contadini compresi, si è dissolta sotto le mazzate delle classi emergenti che con lo smembramento del latifondo e la formazione di aziende più modeste hanno reso più razionali le colture e accumulato i capitali per lanciarsi poi in campo edilizio a mettere insieme fortune colossali. Una fungaia Il risultato è quello cui accennavo prima, una Lecce sterminata cresciuta come una fungaia dì calcestruzzo in un caos urbanistico incredibile perché tutto è stato costruito in totale anarchia, non esìstendo un piano regolatore. Oggi la città più gentile del Meridione pugliese può agevolmente essere scambiata con le periferie di Torino e Milano, con falansteri di dieci piani uno a ridosso dell'altro, vie strette, totale mancanza di verde. Ma se Torino e Milano possono in qualche modo giustificare la caotica costruzione dì case popolari con le massicce immigrazioni, Lecce non ha nessuna giustificazione, perché la sua popolazione è aumentata in vent'anni di poche migliaia di persone. Perché tanta frenesìa edilizia, dunque? Me lo spiega l'avv. Vincenzo Caggìa, consigliere comunale. A Lecce non c'è stato l'inurbamento massiccio verificatosi in altri capoluoghi pugliesi, ma il migliorato tenore di vita ha spinto masse dì leccesi che abitavano nel centro storico verso le case nuove, più confortevoli, fornite di tutti i servizi. Inoltre, un tempo, proprio per scarsità di case, ì figli che si sposavano continuavano a vivere con i genitori, una coabitazione non sempre facile. Il desiderio di indipendenza ha smembrato le famiglie, il paternalismo è morto, ed è morto anche il centro storico, ormai pressoché disabitato. Circolare di sera lungo le vie della vecchia Lecce, sentire l'eco dei propri passi rìsuonare nel silenzio alto che avvolge le facciate delle innumerevoli chiese barocche affollate di statue, le mura severe degli infiniti monasteri un tempo popolosi di monache e frati, le facciate aristocratiche dei palazzi gentilizi, è un'emozione rara. E tutto ciò è minacciato dalla disgregazione perché i leccesi non amano più queste emozioni, preferiscono l'assordante fragore della squallida, allucinante città nuova, illividita dal neon nelle ore notturne, sgretolata dal sole rovente durante il giorno. Le chiese, le case gentilizie e quelle popolari, le statue, le mura dei conventi, la porta trionfale di Carlo V costruite con la pietra di Lecce, tenera, color miele, che al sole s'indora, hanno dovuto cedere ai fragili laterizi moderni, al plebeo calcestruzzo. Il centro sto¬ rico è rimasto intatto, ma fino a quando durerà questo suo incantato silenzio? Senza manutenzione, le case finiranno per crollare. ~Sembra proprio che la disgregazione sia inevitabile, chi si è abituato all'appartamento moderno non torna certo indietro ed i soldi per restaurare ciò che diverrebbe un museo urbanistico non ci sono. Le ricchezze vertiginose sono nelle mani di coloro che hanno capito quale fonte di ricchezza fosse il terreno coltivato a calcestruzzo, contadini e muratori venuti dalla provincia; il resto ha un'esistenza precaria, le antiche attività artigianali si stanno estinguendo con gli ultimi cultori del lavoro manuale: l'industria è ai primordi, con uno stabilimento della Fiat che fabbrica trattori e macchine per il movimento della terra; l'agricoltura non ha saputo rinnovarsi con l'agilità dimostrata dai baresi e dai foggiani. Si producono, è vero, primizie ortofrutticole, ma il mercato è chiuso, perché Lecce ed il Salento sono davvero ancora molto lontani dal resto dell'Italia. C'è una superstrada che consente di arrivare in un'ora e mezzo a Bari, in tre quarti d'ora a Brindisi, e tuttavia Lecce rimane davvero un'isola perché il solo mezzo con cui potrebbe esportare facilmente i suoi prodotti, la ferrovia, è ancora ad un solo binario, ed un viaggio in treno fino a Bari diventa lungo quasi come quello da Bari a Milano. L'arretratezza dell'agricoltura, gli scarsi redditi, hanno provocato una fuga, davvero biblica per la sua importanza, di uomini validi verso il Nord, la Svizzera, la Germania. Dal 1951 al 1971, nel ventennio cioè dei due censimenti, gli emigranti salentinì sono stati 135 mila su una popolazione globale di 628 mila persone; sono cioè fuggiti dalla provincia di Lecce un quinto delle persone che la abitavano, tante da poter fondare due città delle dimensioni quasi uguali a Lecce. E sono questi esuli che, in un certo senso, hanno raddrizzato l'economia del Salento con le rimesse che mandavano dall'estero, ed i risparmi che inviavano dalle città settentrionali. Oggi i piccoli centri abitati da vecchi, donne e fanciulli, sembrano rifatti di nuovo, perché ognuno ha voluto abbellire la propria casa, e quello che avanzava si depositava in banca. Non nei grandi istituti di credito, che non aprono sportelli nei paesini di campagna, ma nelle piccole banche familiari che i latifondisti avevano aperto per concedere prestiti ai coloni che ne avevano bisogno per mandare avanti il loro piccolo fondo. Di questi piccoli e medi istituti di credito, in Salento ve ne sono più che in ogni altra provincia italiana, una quindicina, ed un paio di dimensioni notevoli. Il dott. Giordano, direttore del Banco del Salento, l'istituto di maggiori dimensioni, mi dice che sono state proprio le piccole banche, un tempo familiari, a salvare in parte l'economia del Salento dalla crisi che ha investito il Paese. «Siamo la regione che esporta più braccia e che ha più depositi in banca, dice. Alla fine del 1973 avevamo depositi per 412 miliardi, contro i 289 di Taranto ed i 211 di Brindisi. Ma di quella massa di miliardi ne avevamo 229 investiti, ed eravamo pari alla media nazionale. Quando è avvenuta la stretta creditizia noi abbiamo potuto muoverci con più agilità dei grandi istituti e non abbiamo chiuso totalmente il credito. Molte aziende agricole, edili, industriali, hanno potuto continuare l'attività ed evitare la disoccupazione ». Queste pìccole banche rastrellavano soprattutto i risparmi e le rimesse degli emigranti, ma la crisi che si fa sentire anche in Svizzera e Germania incomincia a rarefare quel flusso di denaro. Tuttavia la crisi, così evidente in quasi tutta Italia, qui si fa sentire meno pesante. L'edilizia tira ancora abbastanza, specie nella speculazione turistica. Un grosso esponente politico locale ha acquistato un bel po' di ettari oltre Torre dell'Orso, e li sta lottizzando. L'agricoltura si sta rinnovando, soprattutto nel settore vitivinicolo. L'avv. Gaetano Gorgoni, assessore provinciale all'agricoltura, però è pessimista. « L'olivo è ancora quello del tempo di Omero, il tabacco, da quando è stato abolito il monopolio, non è più redditizio. Resta il vino. Alcuni agricoltori spendono patrimoni per produrre vini di qualità, rischiano il fallimento, ma tengono duro. Ci sono i conti Zecca, che producono vini eccellenti, ed i conti Leone de Castris, produttori di vini superiori. Ma sono casi isolati, gli altri, la maggioranza, tirano avanti come possono ». Tirare avanti Il tirare avanti significa vendere il vino all'ingrosso. D'autunno, da Brindisi e da Gallipoli partono navi cisterna stracolme di vino del Salento a 18 gradi, a cento lire il litro, dirette in Francia. Lo ricompreremo a due, tre mila lire la bottiglia di due terzi di litro con etichetta di Bordeaux. I leccesi, e con essi tutti i salentini, vivono in una sfera di individualismo esasperato, sono critici su tutto, e sempre contrari a tutto. Erano illuministi durante la più oscura reazione, repubblicani al tempo della monarchia, antifascisti durante il fascismo (Starace non ebbe fortuna nella sua città), reazionari dopo il fascismo, monarchici con la repubblica, largamente democristiani dopo il crollo del partito monarchico, ma al referendum per il divorzio votarono a stragrande maggioranza contro l'abrogazione. « Siamo nati per stare all'opposizione, conclude Mimmo Carbone, ed è forse per questo che siamo condannati all'isolamento, a vivere in disparte ». Francesco Rosso