ll cuore nero di Bahia di Livio Zanetti

ll cuore nero di Bahia Antichi culti africani nel Brasile di oggi ll cuore nero di Bahia (Dal nostro inviato speciale) Bahia, gennaio. Stanno l'una con le mani diafane strette tra le dita nodose, scure dell'altra. Mute, stanno cercandosi. La donna nera, minuscola, dall'età indefinita, è una sacerdotessa umbanda, del culto sincretistico cresciuto più d'ogni altro nel Brasile di questi anni. La padrona di casa, discendente lontana di un Braganza, è una signora dell'alta borghesia bahiana, laureata a Parigi e sposata due volte, con un medico prima ed ora con un industriale del legno. Da molte settimane riceve le visite della curonderà, che deve guarirla da una misteriosa forma di emicrania. Ma perché il fluido terapeutico passi dalla taumaturga alla sofferente è necessario che si stabilisca tra loro un «contatto psichico». «Forza bahiana, forza africana, forza divina scendi giù, vieni ad aiutarci», recita implorante la negra. La signora è stata anche ad una cerimonia umbanda. Racconta mortificata che non ha potuto conoscere l'estasi, sebbene sia stata toccata dalla fede primitiva, tutta esteriorizzata, degli altri iniziati. Non sa se si farà «umbandista», lei è stata battezzata e cresimata, fino a qualche tempo addietro alla domenica andava in chiesa. Ma il suo non sarebbe un caso raro, al contrario. Sono centinaia di migliaia, forse milioni i borghesi bianchi di Rio, Minas Gerais, Bahia che si sono convertiti alla teologia afro-bahiana e praticano con fervore i suoi riti estemporanei. Durante le ultime elezioni, tanto i candidati del partito al governo quanto quelli dell'opposizione hanno tenuto centinaia di comizi sui terreni consacrati àìì'umbanda. «E la Chiesa cattolica che dice...», domando ad un sacerdote veneto che sta qui da otto anni. Mi risponde con una frase del Vangelo di Marco: «Chi non è contro di noi, è con noi». Non crede, come sostengono alcuni, che il governo abbia favorito il propagarsi delle pratiche sincretistiche in ritorsione contro la gerarchia cattolica, ostile in molte circostanze al regime militare. Né si nasconde che il cattolicesimo di questo Paese è sempre stato impuro e la cultura africana sempre vivissima. Tentare di sradicarla sarebbe contrario allo spirito conciliare prima ancora che arduo. Dietro di essa c'è un ideale mistico sul quale si trovano d'accordo tutti i mistici cristiani, musulmani, indù o buddisti che siano. Quello se condo cui ogni separazione è falsa, perché l'universo è un'entità unica e indivisibile. h'wnbanda è monoteista, lasciando a ciascuno dei fedeli la libertà di sentirsi come più gli piace il suo dio. I santi innume revoli dell'agiografia «umbandi sta» si chiamano Oxala, Orixa, Xango, Ibeji, Exu, che sono i no mi traslitterati dai dialetti tribali congolesi e ugandesi dei nostri San Giorgio, Santa Teresa, San Michele, spesso moltiplicati in più immagini sostanzialmente uguali tra di esse. La liturgia è frutto di una mescolanza dei riti cattolici, del folclore indio, dello spiritismo di Alain Kardec e tende sempre a rappresentare il sacrificio e la reincarnazione. C'è, neW'umbanda, come nella ucumba e nel più violento candomble, il segno ereditario della rassegnazione, della vendetta e della speranza, vita morte degli antichi schiavi neri trasportati qui in catene dalla patria africana. Credere, non importa in che cosa, aiutava a sopportare. «Schiavo può essere il vostro corpo ma non abbiate timore, per quante pene dobbia te soffrire potrete avere sempre un'anima libera per volare un giorno alla felice casa del Signo re», scriveva il missionario gesuita Juan Perpina y Pibernat nei suoi «Sermoni detta domeni ca»; i negri, le loro donne e i loro bambini ripetevano in coro e ballavano sul ritmo dei tam-tam, dimentichi della fatica e della frusta. Nelle Antille, i negri giunti attraverso una peregrinazione secolare dalle regioni dell'Alto Nilo, portano antichi rituali egizi che ad Haiti prendono a rivive re nel vodu. Scendendo poi in Brasile nella fantasia religiosa degli schiavi che sfuggono agli auto-da-jé e alla «ruota» della «Santa Inquisizione», molte divinità vodu si incontrano con i santi cattolici portati dai conquistadores. Con questi si fondono, trasfigurandosi per assumere di volta in volta la figura unghiuta del «Male» implacabile sfruttatore di pelli nere, oppure del «Bene», raggiante nei colori ridondanti, ingenui e insieme terribili. «Siamo gli eredi legittimi dell'universalismo africano, la sintesi di contributi filosofici diversi, lo splendore dell'arcobaleno che ha resistito ai travisamenti e all'incomprensione tempestosi di quanti gettano appena uno sguardo al colore del rituale e non riescono a vedere la forza delle fondamenta», ha dichif iato p Rio l'anno scorso il terzo congresso dell'umbanda. A Bahia, «città di tutti i santi e di tutti i peccati», Vumbanda ha la sua capitale. Lungo le stradine abbacinate dal sole che sbatte contro i muri bianco-calce, giù verso il porto, si snoda la interminabile teoria dei bugigattoli in cui si vendono gli abiti candidi, i liquidi misteriosi, i cento feticci talvolta ripugnanti che costituiscono l'armamentario liturgico delle «sessioni» collettive. All'europeo di passaggio, frettoloso turista o viaggiatore alla ricerca di sensazioni, risulta difficile comporre questa immagine con quella dei crocifissi che svettano sulla città, dalle cime barocche dei suoi trecento templi cristiani. Quando il sole s'avvia a declinare dietro le colline che nascondono l'Oceano Atlantico, teso nell'azzurro cobalto di questa stagione, un rullare di tamburi prima soave e poi sempre più intenso copre ogni altro clamore. Dalle favelas arrampicate sui morros pelati di qualsiasi verde dalla fame di spazio, escono le domestiche, i manovali, gli invalidi, i questuanti, i bimbi dai ventri idropici sullo scheletro rachitico, tutta l'umanità dolente che durante il giorno vive emarginata. Scende verso il mare per celebrare umbanda e lungo i cammini verso i luoghi di ritrovo s'incontrano con le automobili che vi conducono i fedeli dei quartieri alti. Al pari di ogni fede che si rispetti, Vumbanda è interclassista. Gira la cachaca, l'acquavite di canna da zucchero forte e dolciastra; nessuno rifiuta di bere, serve a rilassarsi e fa dimenticare la fastidiosa umidità della notte sulla spiaggia. I chierici, carponi sulla sabbia, puliscono con cura lo spazio in cui officeranno i sacerdoti. Corone di rose, dalie, crisantemi e gigli vengono affidate alle onde, per impetrare il favore delle tenebre, da sempre e per lutti naturale rifugio del male, un florilegio di lucignoli comincia a rischiarare volti di ogni età, bianchi, neri, mulatti, assorti nella preghiera. E' il momento dell'omaggio ai defunti o meglio ai loro spiriti, che le acque dovrebbero aiutare ad evocare. Riprende la litania dei tamburi, ricordo ancestrale e strumento di esaltazione. Caymmi, l'anziana curandera che ho incontrato in casa della signora di Braganza, appare nel mezzo di giovani che ballano già posseduti da una frenesia inspiegabile per chi si limita a guardare. E' lei la celebrante di questa notte. Stende le braccia verso terra e senza bisogno di piegarsi palpa due docili conigli bianchi che qualcuno le ha posto davanti. Li tocca con gesti rapidi, ordinati, e quelli non si muovono, forse intorpiditi dai vapori della cachaca e dagli effluvi dei legni aromatici affastellati in un falò. Finché con un solo colpo di coltello Caymmi non li sgozza entrambi, afferrandoli per la coda e agitandoli perché perdano tutto il sangue, in cui si ar.iidano le loro impurità, e poterli offrire a Exit, mediatore tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Chi ha portato un'offerta per Exu la lascia cadere ai piedi di Caymmi: una collana, un pacco di candele colorate, molte bottiglie di cachaca, denaro, dolci di cocco si affastellano sulla sabbia. «Conosce Kipling?», mi domanda la signora che mi ha accompagnato, e subito declama: «"Molte strade tu hai tracciato e tutte conducono alla luce". Non conosce "L'inno a Mitra"? ». Livio Zanetti

Persone citate: Alain Kardec, Caymmi, Kipling, Minas Gerais, Mitra

Luoghi citati: Bahia, Brasile, Haiti, Parigi