I terremotati del Belice di Nicola Adelfi

I terremotati del Belice CHE SUCCEDE DI NUOVO NELLE CAMPAGNE DI SICILIA I terremotati del Belice Sette anni dopo, si è accolti da ingannevoli apparenze: il declivio dove sorgerà la nuova Santa Ninfa si fregia di strade a tre corsie, fognature, acquedotto - Mancano però le case e il denaro è finito: per centomila persone restano ancora le baracche (Dal nostro inviato speciale) Palermo, gennaio. Ogni volta, percon endo la valle del Belice sette anni dopo il terremoto, l'inganno si presenta sempre lo stesso: le apparenze fanno pensare subito a una ricostruzione moderna, razionale, a soluzioni urbanistiche di tipo svedese, ma le realtà si rivelano misere e avvilenti, sono le baracche messe su durante il 1968 per dare un rifugio provvisorio a centomila terremotati. Prendete per esempio Santa Ninfa. Lo scenario potrebbe avere questo titolo: « Ieri, oggi, domani ». Il passato è uno spettro scuro in cima al poggio, la Santa Ninfa sgretolata dal terremoto; il presente consiste in un villaggio di baracche; il futuro è collocato sul declivio dove sorgerà la nuova Santa Ninfa. Qui urbanisti e architetti hanno fatto le cose in grande: vi sono strade a tre corsie, i muri di sostegno hanno la robustezza di fortezze, i lampioni sono alti ed eleganti steli di metallo, non mancano le fognature e l'acquedotto. Quel che manca però sono le case. Ora il denaro è finito, e nessuno può prevedere quando saranno costruite. Tra dieci anni? E' improbabile. Venti anni? Nessuno può dirlo. Tra le persone con cui ne parlo, compresi alti funzionari ministeriali, c'è solo pessimismo. Tra i baraccati c'è anche esasperazione: essi han¬ no sempre sotto gli occhi le due realtà contrastanti: da una parte il loro squallido villaggio di vecchie baracche, dall'altra le maiuscole strutture urbanistiche, alla svedese, che hanno succhiato fior di miliardi e montagne di cemento in vista di un futuro che si fa sempre più elusivo. Complessivamente nella valle del Belice dei 2200 alloggi che dovevano essere costruiti a completo carico dello Stato, quelli già pronti non arrivano a 400; e dei 12.000 alloggi da costruire con contributi statali, non ne esiste uno solo. Proprio così, neppure uno. E non parliamo del silenzio di tomba che avvolge le ripetutepromesse di animare l'economia di questo « triangolo della miseria » con grandi e medie industrie. Al tirar delle somme, non restano che le baracche. Ce n'è di tutti i tipi: di legno e di metallo, di faesite, di populit, di eternit; alcune di lamiera e grandi come hangar per aeroplani, altre piccole quasi come cabine balneari. In genere le famiglie fino a quattro persone dispongono di uno spazio di 25 metri quadrati; se più numerose, dì 45 metri. E' molto poco, specie se in una famiglia i figli sono di sesso diverso, e non più bambini. Anche se sì riducono al minimo i servizi igienici e la cucina, di solito bisogna tenere i letti accostati, e quasi niente è lo spazio che avanza per i mobili. « Durante i mesi estivi si bolle sempre nelle baracche, di giorno e di notte », mi dice il sindaco di Gìbellina. Dopo notti trascorse in bagni di sudore, per davvero bagni turchi, la mattina sì va al lavoro spossati, scontrosi. Un acquazzone è una festa, i bambini sgusciano all'aperto, alzano la faccia verso la pioggia, a piedi nudi guazzano nei rigagnoli. Però ci sono estati senza neppure un'ora di pioggia. « L'inverno è peggio », mi dice il sindaco di Montevago. Nella notte ci si può difendere dal freddo cacciandosi sotto cinque, sei coperte, ma non c'è niente da fare contro l'umidità: vi raggiunge dappertutto, penetra nelle ossa. Mi dice una donna, e le vicine fanno sempre di sì col capo, che la mattina, quando rassetta ì letti, le si inumidiscono le mani. E si respira male, a volte uno si sente soffocare, se in una baracca si dorme in sei. sette persone. I medici lo confermano: le malattie più comuni sono quelle reumatiche e alle vie respiratorie, specialmente tra gli anziani e i bambini. Subito dopo vengono le malattie di origine nervosa. Per lo più un sottile pannello di compensato separa una famiglia dall'altra nelle baracche, e ì rumori sono come l'umidità, non c'è modo di difendersi. Anche se uno parla a bassa voce, se tossisce appena, se smuove un oggetto, i rumori si diffondono di là dai fogli di compensato, provocano irritazione nei vicini, anche proteste chiassose e minacce. Dice un pretino magro, giovane: « Mai un momento di silenzio, di tranquillità, di raccoglimento. Solo qui nel Belice ho capito che significa una vita di penitenza ». Aggiunge uno studente universitario: « Noi terremotati diamo fastidio a tutti, siamo un'accusa vivente all'inerzia e alla corruzione pubblica. Dopo essersi mangiati i soldi, ora vogliono toglierci di mezzo: o con l'emigrazione o con le malattie ». Sta di fatto che un po' dappertutto in Italia la gente è stata convinta che i centomila baraccati del Belice si sono adagiati come parassiti nella bambagia dei sussidi, delle agevolazioni fiscali o di altra natura, e per questo li chiamano «i professionisti del terremoto ». Però le cose non stanno così. Da anni non ricevono più sussidi e pagano le tasse. L'unico loro privilegio consiste ora nell'uso gratuito dell'energia elettrica e dell'acqua. Non è gran che se si tiene conto che la rete elettrica, nata provvisoria e rimasta tale, spesso non regge il carico, e bisogna allora accendere le candele; e che nelle baraccopoli l'acqua viene erogata per tre ore ogni due giorni, e a volte manca per una settimana intera. Anche le tubature di plastica dell'acqua e delle fogne nacquero col carattere di provvisorietà, affiancate nello stesso cunicolo: e poiché il tempo le ha deteriorate, frequenti sono i casi di inquinamento. Lo stesso si può dire per le baracche: dovevano durare due anni, al massimo tre. A suo tempo, subito dopo il terremoto, il criterio della provvisorietà fu una scelta meditata: avrebbe dovuto essere un pungolo, una frusta, per ricostruire sollecitamente i paesi e dare agli abitanti una casa nuova. Adesso, cadute le buone intenzioni, mentre tutto si sta sgretolando per decrepitudine, si cerca di tirare avanti spendendo miliardi dopo ogni inverno per riparare le baracche più malconce, per aggiustare tubature e condotte. Anche questa emorragia di miliardi contribuisce a ingrossare la fiumana degli sprechi di denaro pubblico. Conti alla mano, il senatore Corrao, sindaco di Gìbellina, mi spiega che ogni metro quadrato delle baracche è costato centinaia di migliaia di lire, più o meno quanto un metro quadrato delle palazzine che si vedono nei quartieri della borghesia a Palermo o a Roma. A parte gli errori di impostazione del problema, le leggi malfatte o tardive, formalismi burocratici, le lotte politiche o di campanile, va tenuto presente che intorno ai lutti e alle sofferenze dei terremotati la speculazione ha convogliato moltissimo denaro verso ampie e segrete mangiatoie. Per esempio, di un parlamentare che aveva incarichi di governo e che appariva tutto amore, tutto dedizione per le sorti del Belice, si dice che fu trovato alla frontiera svizzera con 450 milioni di lire a bordo della sua auto: i giornali ne diedero una breve notizia, senza specificare peraltro se quel parlamentare avesse compiuto precedentemente viaggi analoghi, e quante volte. Dunque sono innumerevoli e anche avvolti nel mantello dell'oscurità gli elementi che ostacolano la ricostruzione nella valle del Belice. Ora c'è la crisi economica, poco resta del denaro stanziato negli anni scorsi, e c'è un clima di disfacimento materiale e morale. Gli anziani pensano che la loro esistenza si consumerà tutta nelle baracche, i giovani non vedono un avvenire nella valle del Belice. « La baracca non è una casa e la baraccopoli non è un paese », mi dice don Ribaldi, parroco di Santa Ninfa. « Non ci si adatta mai, si finisce col perdere il senso della propria identità. Ma che fare? Abbiamo tenuto convegni di uomini politici e di intellettuali, tavole rotonde, conferenze; abbiamo organizzato marce di protesta a Palermo, e qualche anno fa andammo ad accamparci davanti al portone di Montecitorio per giorni interi. E' stato tutto inutile. E ora che altro fare? Gli scioperi non servono nel nostro caso, neppure i blocchi stradali o altre forme di violenza, Dunque che fare? ». Io e don Rìboldi ci conosciamo dai giorni strazianti del terremoto, e insieme ricordiamo le macerie, i corpi dilaniati, i cadaveri coperti da fogli di plastica trasparente. Allora, messa dinanzi alle notizie e alle immagini del terremoto, l'Italia tutta sussultò di commozione, si sentì accomunata da un forte, spontaneo sentimento di solidarietà. Davanti agli sportelli del nostro giornale per settimane ci furono file di persone che recavano somme di denaro, anche piccole, a volte quel che c'era nel salvadanaio di una bambina. E si era persuasi, allora, che il settimo Paese industriale del mondo, il nostro, avrebbe saputo trovare subito il modo di cicatrizzare le ferite materiali aperte dal terremoto nella Sicilia. Nicola Adelfi

Persone citate: Corrao, Di Nuovo, Ribaldi