Guerra in Vietnam la strage continua di Andrea Barbato

Guerra in Vietnam la strage continua Quante "guerre locali,, nel '75? Guerra in Vietnam la strage continua L'anno nuovo sembra volersi annunciare subito con bagliori di guerra, quasi a ricordarci quanto sia fragile il processo di distensione internazionale, minacciato sia dal grande scontro per le fonti d'energia, sia dall'esplosione di conflitti locali in varie zone del mondo. L'intimazione di Gerald Ford e di Henry Kissingcr sul possibile uso della forza contro i Paesi arabi, sia pure temperata dall'immediata offerta di negoziato, ci ha già ammoniti che potremmo persino essere chiamati a « morire per il petrolio », così come un tempo fummo posti dinanzi al dilemma se fosse giusto morire per Madrid, e più tardi per Berlino, o per Gerusalemme. Ma ora ceco tornare in primo piano nella cronaca una guerra che sembrava dimenticata, sepolta sotto i trattati, quasi esorcizzata dalla stanchezza dell'opinione pubblica mondiale. Sono passati due anni quasi esatti dal giorno in cui, dopo Ire anni e mezzo di trattative, e 24 sessioni di sedute estenuanti, fu firmata, intorno alla tavola ovale del vecchio Hotel Majcstic di Parigi, quella carta che sembrò mettere fine a venticinque anni di guerra civile nella penisola vietnamita. Richard Nixon, allora nel pieno del suo prestigio, volle definirla subito « una pace con onore ». L'onore sembrava davvero salvo per tutti, nelle vaghe formule di quel documento stilato dalla sottile diplomazia verbale di Kissingcr e di Le Due Tho; ma la pace era solo una speranza, una scommessa sul futuro. Una scommessa presto perduta. Lo provano le notizie di questi mesi (75.000 morti nel 1974) e soprattutto di queste ore: usciti dagli antichi « santuari », i guerriglieri del Fronte di Liberazione Nazionale stanno lanciando un'offensiva su tutto il settore occidentale, accerchiano da vicino Saigon, conquistano capoluoghi di provincia, e il loro attacco sembra concordato con una contemporanea pressione al di là della frontiera cambogiana, in direzione di Phnom Penh. Ricordiamo quella fine di gennaio del 1973 a Saigon, nelle capitali provinciali, nel delta del Mekong. Ai segni confortanti (il puntuale ritiro americano, lo scambio dei prigionieri, la saturazione collettiva per il troppo sangue sparso da due generazioni di vietnamiti), si sovrapponevano con evidenza sintomi inquietanti. Le commissioni internazionali chiamate a vigilare sulla tregua non potevano agire, la missione militare di Hanoi era praticamente in ostaggio nelle baracche dell'aeroporto (dov'è rimasta per questi due anni), il regime di Van Thieu era debole e screditato, incalzato da un'opposizione crescente ma a sua volta impotente. Ma più ancora appariva allarmante la situazione territoriale, di cui il sospirato documento di Parigi sembrava aver tenuto scarso conto. Eserciti contrapposti mantenevano le loro posizioni, e anzi se le contendevano lembo a lembo; la tregua aveva congelato una mappa instabile e assurda, a « pelle di leopardo », dove le macchie delle zone controllate dai vietcong si estendevano in tutto il territorio. Viaggiando nell'interno del paese ancora sconvolto, si capiva quanto fosse impossibile tracciare una linea di demarcazione fra le due parti, con i villaggi che inalberavano all'improvviso la bandiera rossa e blu dei vietcong, o quella rossa e gialla di Thieu. L'accordo di Parigi, che era stato perfino firmato su fogli separati dalle quattro parti in causa, prometteva ciò che non poteva mantenere, in quasi tutti i suoi nove capitoli: l'unità del Vietnam, le elezioni libere e controllate da un « Consiglio nazionale per la riconciliazione e la concordia », il rispetto della zona smilitarizzata, il lavoro delle commissioni miste ed internazionali. Solo il cessate-ilfuoco parve dapprima consolidarsi, e solo il ritiro americano avvenne nei tempi stabiliti. Ma presto ripresero le violazioni, i combattimenti, gli inutili sforzi d'applicazione di quel trattato astratto, nel quale ciascuno si sentiva vincitore. Il controllo politico e militare del Vietnam del Sud rimase una partita aperta, tutta ancora da giocare. Ed oggi, c'è chi parla apertamente di una « terza guerra » vietnamita, ormai di nuovo deflagrata nelle risaie e sugli altopiani. Dieci anni di impegno mili¬ trqcvts tare americano erano dunque riusciti in un solo obiettivo: quello di « vietnamizzare » il conflitto. Van Tieu ha conservato inaspettatamente un potere che tutti pronosticavano finito, ma a prezzo della divisione del Paese. Sebbene installato solo su poco più d'un terzo del territorio (e con il controllo di poco più del dicci per cento della popolazione), il Governo Rivoluzionario Provvisorio è trinceralo su postazioni di grande forza strategica. Stupisce semmai che l'offensiva in grande stile abbia tardato tanto a lungo, quando la bilancia militare è così chiaramente a favore della guerriglia, ben rifornita, ben armata, con una straordinaria rete logistica che non e più il leggendario sentiero di Ho Ci Minh percorso da soldati scalzi. Di fronte, Hanoi e i vietcong hanno un esercito numeroso, ma inquinato dalla burocrazia, dal declino del morale, dal rapido logoramento della tecnologia bellica abbandonata dagli americani in quell'angolo del Sud-Est asiatico. Ci si è domandati, in questi mesi, non « se », ma « quando » la bandiera guerriglicra sarebbe salita su Saigon e su Phnom Penh. E' possibile che la grande ondata del Tet del 1968 non si ripeta, che le battaglie di questi giorni non siano il preludio della guerra finale fra i due, o i tre Vietnam. Una incessante minaccia può essere ancora la strategia migliore per far cadere un regime, piuttosto che conquistare città affamate e masse di rifugiati ostili. E poi, Hanoi e il Grp sanno bene quali gravi rischi internazionali farebbe correre una loro possibile vittoria campale, una minaccia sulle capitali. Forse, la distensione « tripolare » può ancora contenere il conflitto, sebbene la crudeltà delle guerre regionali non sia davvero poco sanguinosa. Impegnato nel confronto globale per la supremazia e per le fonti energetiche, l'universo delle grandi potenze resta esposto al rischio delle guerre locali, da Cipro all'Etiopia. dall'Indocina alle alture di Golan; o addirittura ne fa strumento per una partita più vasta, giocata pericolosamente, per trarre vantaggio da ogni segno di momentanea debolezza (la « malattia » di Breznev, il declino fisico di Mao e Ciu En-lai, il declinante prestigio di Ford e Kissinger) dei partners di questa strana ed inquieta pace globale. Andrea Barbato