Grandi contrasti nel Paese del "nuovo individuo arabo,, di Alfredo Venturi

Grandi contrasti nel Paese del "nuovo individuo arabo,, Grandi contrasti nel Paese del "nuovo individuo arabo,, Tra il militarismo e il pacifismo gli egiziani del "dopo Kippur,, (Dal nostro inviato speciale) II Cairo, 6 gennaio. Per afferrare il momento psicologico dell'Egitto non basta guardare ai treni sovraccarichi di operai mugugnanti, alla disperata periferia del Cairo, gremita di profughi che lasciarono la regione del Canale e ancora non si decidono a rientrarvi, ai grandi edifici universitari attorno ai quali formicola una folla di studenti intinteti. Bisogna osservare i militari, che qui nella capitale ma anche nelle guarnigioni lungo la strada di Suez, e soprattutto nelle città del Canale, hanno riscoperto l'orgoglio della divisa. Grandi scritte, al Cairo come a Suez e a Ismailia, avvertono che la vittoria è venuta per volontà di Dio, ma anche per l'eroismo dei soldati egiziani; e quando il presidente Sadat parla di «nuovo individuo arabo», è chiaro che pensa al giovane combattente dei reparti speciali, quelli che durante la guerra d'ottobre seppero mostrare al mondo la novità di un esercito arabo felicemente sposato al nuovo armamento tecnologico. Bisogna osservare il giovanissimo ufficiale pilota, orgogliosamente presentato dal padre agli amici nel caffè di un grande albergo, la sua accademica compostezza che non riesce a nascondere il fresco ricordo dei duelli aerei nel Sinai, delle picchiate sui reparti corazzati israeliani, di quella vittoria che valse a riscattare decenni di Irustrazione bellica. Bisogna, soprattutto, entrare nel grande cinema sulla brulicante Talaat Harb Shari, dove per parecchie settimane è stato programmato il film della promozione psicologica nazionale. S'intitola «Tengo ancora la pallottola in tasca», e l'enigma della lingua araba non basta a nasconderne il significato, segno di buona riuscita cinematografica. E' la storia di un soldato egiziano e delle due guerre che ha combattuto, nel '67 e nel 73. Una sconfitta bruciante e un'esaltante vittoria. Se ne torna a capo chino dopo il giugno, e un rude approccio didascalico vuole che dopo aver perduto sul campo perda anche nella vita: la ragazza lo abbandona, gli amici lo evitano. Lui sopravvive nell'attesa del riscatto, ogni tanto rigira fra le mani il proiettile destinato ad un ufficiale israeliano, che durante il giugno ordinò un massacro. Passano sei anni e alcuni mesi, ed ecco l'ottobre del '73, ecco l'assalto alla linea Bar Lev, la silenziosa infiltrazione oltre il Canale, l'accerchiamento delle guarnigioni israeliane, la resa di questa Maginot desertica investita dall'acqua del Canale e dall'irruenza dei commandos egiziani. Il protagonista conosce finalmente l'ebbrezza della vittoria, potrebbe usare la pallottola conservata da sei anni ma non lo fa, perché l'immagine del «nuovo individuo arabo» è l'immagine di un uomo generoso, di un combattente pacifista che non sarà mai un guerriero. Così, mentre l'ufficiale nemico diventa prigioniero di guerra, il soldato egiziano, che già pregusta le riconquistate gioie dell'amore e dell'amicizia, rimette in tasca il proiettile ormai diventato souvenir, e la platea esplode in un uragano d'applausi. Il film gronda entusiasmo e ingenuità, gli israeliani vengono rappresentanti, tutti con i capelli lunghi e tutti con gli occhiali da sole, come gente di un altro mondo. Sono capelloni perché si vuole che la loro rilassatezza morale, le cui radici sono nell'Occidente, contrasti con il rigido moralismo islamico; portano gli occhiali da sole perché questi occidentali estranei non possono sopportare i bagliori del deserto, del deserto arabo. Con tutte le sue forzature propagandistiche, il film non riesce ad essere bellicista, né ha l'aria di volerlo essere. E' un racconto dì gente che fa la guerra controvoglia, che aspira intimamente alla pace, che i successi militari commuovono più che eccitare. Gente che rifiuta la vendetta, e preferisce lasciare ad altri la pratica della guerra propagandistica, basata sulla ricerca di una spietata immagine di marca che atterrisca il nemico. Questo miscuglio di euforia e determinazione, di autorealizzazione nella guerra e desiderio di autorealizzazione nella pace, è lo stato d'animo prevalente in Egitto quindici mesi dopo la guerra del Kippur. Questo Paese contadino e gremito, affamato di spazi, ha bisogno della pace e sa di averne bisogno. Sente di essere chiamato, da sempre, a pagare per un disgraziato destino storico e geografico, e per le velleità di altri. Dopo la guerra del '67, cinque milioni di nuovi egiziani hanno portato a 36 milioni la massa che popola le strette rive del Nilo, ma tutto in questo Paese è bloccato su fatali priorità militari. L'aiuto dei Paesi arabi ricchi, famiglie rarefatte che vivono in lontani deserti inzuppati di petrolio, non basta a fare dell'Egitto una caserma felice, e i problemi economici ingigantiti dalla sovrappopolazione degenerando al contatto della sanguisuga militare. La volontà di riaprire il Canale di Suez va capita anche da questo punto di vista. Riaprire il Canale significa consacrare il più vistoso risultato della guerra d'ottobre, cioè la riconquista dell'altra riva. Significa anche assicurarsi una fonte di reddito che riduca la frustrante dipendenza esterna del Paese, e quando si parla di dipendenza esterna, negli ambienti più avvertili del Cairo, non è certo per escludere dal concetto le intrusioni sempre più pesanti di certa diplomazia araba. Significa infine, la riapertura del Canale, il mezzo di alleggerire la pressione demografica lungo il Nilo e nel Delta, ripopolando l'istmo e avviando la «colonizzazione» delle rive del Mar Rosso. Certo, le esigenze diplomatiche sono molte e sottili, per cui il ritorno delle navi a Suez viene subordinato, efficacissima merce di scambio nel mercato delle concessioni internazionali, a molte condizioni, come un sostanziale nuovo arretramento degli israeliani nel Sinai. Alfredo Venturi

Persone citate: Bar Lev, Harb Shari, Sadat

Luoghi citati: Cairo, Egitto, Sinai, Suez