Alle urne il 9 gennaio, in lizza undici partiti di Sandro Viola

Alle urne il 9 gennaio, in lizza undici partiti Alle urne il 9 gennaio, in lizza undici partiti Danimarca, grande malata (con l'Italia e l'Inghilterra) In primo linea — con gli inglesi e gli italiani — tra i «grandi malati» dell'Occidente, i danesi tornano alle urne giovedì 9 gennaio per rieleggere il Polketing, come si chiama il Parlamento unicamerale di Copenaghen. Dopo una legislatura durata soltanto tredici mesi, le elezioni anticipate sono state decise dal governo del liberale Poi Hartling nella speranza di ridare al Parlamento — dove oggi seggono, a rappresentare cinque milioni d'abitanti, ben undici partili — una composizione meno spezzettata e caotica dell'attuale. Quel tanto di omogeneità, di chiarezza negli schieramenti, che potrebbe consentire al prossimo governo un'azione incisiva, e non labile e timida come quella cui i liberali (che governavano con appena 22 seggi su 179) sono stati costretti durante tutto 10 scorso anno. Le speranze di Hartling (un ex pastore luterano approdato al Folketing in età già matura) sono fondate? La Danimarca può davvero — e in fretta — uscii<: dallo stato di elcttoralità continua e di confusione politica in cui versa da tre anni? La risposta verrà dal voto del 9 gennaio. Ma per il momento è lecito avanzare una previsione pessimistica, perché il «caso danese» — l'insieme dei problemi economici e sociali, i cattivi umori delle masse che fuoriescono, in Danimarca e in tutto l'estremo Nord europeo, dalla crisi dei socialismi «di gestione», alla scandinava — non sembra tale da poter essere risolta col solo ausilio di un'elezione politica anticipata. Il calcolo dei liberali è quello di giungere a un governo di coalizione con i socialdemocratici (che pur avendo ottenuto alle ultime elezioni il minor numero di juffragi di questo mezzo secolo restano, col 28 per cento, il partito di maggioranza relativa), in modo da varare un programma economico d'emergenza capace di arrestare il continuo aumento del deficit della bilancia commerciale e la crescita vertiginosa del debito estero. Un programma che dovrebbe comprendere, tra le altre misure, il blocco dei salari, e a cui è perciò necessario l'appoggio del partito politico che ha sempre avuto i rapporti più stretti con le organizzazioni sindacali. Ma anche se il risultato elettorale dovesse dar ragione ad Hartling e ai sondaggi d'opinione condotti nelle ultime settimane (crescita dei liberali, dei socialdemocratici e dei comunisti), non è detto che questo tipo di coalizione possa davvero togliere al Paese i suoi connotati di «ingovernabilità». Intanto, il legame tra il partito socialdemocratico c i sindacati si è molto allentato; e soprattutto si va smagliando la capacità di controllo dei sindacati sulle masse dei lavoratori: aumentano infatti gli scioperi «selvaggi», e nell'ultimo anno si è rafforzato notevolmente il richiamo che il partito comunista esercita sugli operai dell'industria. Alle spalle di questo mutamento di rapporti sembra esserci il vero problema danese (evidenziato, reso più drammatico dalla crisi economica del mondo industriale) e, cioè, 11 declino del « modello » scandinavo, quello «Stato previdenziale » che ai politologi in polemica con le ideologie era parso « l'unico socialismo possibile ». In realtà, questo tipo di « socialismo » costa ai cittadini (sotto forma di tasse) più di quanto i cittadini non siano disposti a pagare. Non è per caso che dalla Norvegia alla Svezia c alla Danimarca gli esperti vanno rifacendo da mesi i conti, e promettono alle masse sempre più nervose di ridurre nel 75 i carichi fiscali. I Weljare States, gli Stati previdenziali o « sociali », sono dunque al tramonto? Forse è presto per dirlo, ma qualcuno ne è convinto. « // fatto — ci diceva recentemente a Copenaghen Jens Maigaard, deputato socialproletario — è che i miti hanno vita breve. Il riformismo non può essere portato oltre un certo limite, salvo a essere pronti, poi, per te riforme di struttura. Altrimenti il carico fiscale (il costo cioè dello Stato "sociale") si fa così eccessivo che la gente non può più sopportarlo ». La dimostrazione del distacco delle masse dall'illusione — nutrita a lungo — d'aver realizzato un meccanismo sociale pressoché perfetto, si è avuta nelle ultime elezioni politiche del dicembre 73. Un partito appena creato, senza classe dirigente, con al vertice personaggi assai « chiacchierati » (il partito « del progresso » di Mogens Glistrup), ottenne il 16 per cento dei voti divenendo la seconda formazione, dopo i socialdemocratici, del Parlamento di Copenaghen. Ora. il partito di Glistrup aveva nel programma un solo argomento concreto: « Basta con le tasse ». Lo scoppio di qualunquismo, il moto di protesta contro i partiti tradizionali che marcò le ultime elezioni, è destinato a ripetersi anche il 9 gennaio? E' quel che si vedrà. La cosa certa e che una ventata di irrazionalità ha investito la Danimarca (basta pensare ai comizi contro la Comunità europea che raccolgono decine di migliaia di persone convinte che tutti i mal: del Paese dipendano dall'ingresso di Cope¬ naghen nella Cee), c che questi umori sono sempre i più favorevoli alla crescita dei « potijadismi ». Insomma, il Parlamento che uscirà dalle nuove elezioni potrebbe essere altrettanto sminuzzato c inefficiente di quello che Hartling ha appena sciolto. Allora (in questo caso si, certo più che nel « caso italiano ») bisognerebbe riflettere sulla diagnosi kissingcriana di un'Europa che «soffre oggi d'un malessere politico, dì incertezza interna e d'una mancanza di guida », dove aumenta di continuo « il senso di impotenza, erodendo l'intera base politica dei governi ». Sandro Viola

Persone citate: Cope, Hartling, Jens Maigaard, Mogens Glistrup