Il cambiamento Usa e la risposta europea di Arrigo Levi

Il cambiamento Usa e la risposta europea TACCUINO DI UN VIAGGIO AMERICANO Il cambiamento Usa e la risposta europea Una nazione rilassata e tranquilla vota oggi per Carter (favorito) o per Ford - Chiunque vinca, tenderà la mano al Vecchio Continente: ma l'Europa è in grado di sentire la chiamata? Washington, ottobre 1976. Come è difficile, per un viaggiatore di una lontana e agitata provincia dell'Impero, convincere i vecchi amici a parlare dell'America, anziché degli inquietanti svilup. pi nel proprio Paese d'origine, dal quale qui tutti appaiono decisamente affascinati! Alla vigilia del 2 novembre, le passioni elettorali non dovrebbero essere più calde? C'è da stupirsi: è possibile che l'America sia davvero così rilassata, tranquilla, contenta di sé, come sembra essere in questo suo duecentesimo anno, nel momento d'una elezione presidenziale che deve finalmente chiudere uno dei capitoli più drammatici della sua storia? La pressione degli avvenimenti in patria mi ha tenuto lontano per oltre due anni da quella che è la capitale dell'Occidente. Quando ho visitato per l'ultima volta Washington, lo scandalo Watergate doveva ancora giungere alla sua drammatica conclusione; la caduta di Nixon, che avevo seguito, due anni prima, nella sua trionfale campagna elettorale, non era affatto certa. Poi esplose la crisi istituzionale, che, molti temevano, avrebbe potuto annunciare la fine della breve età imperiale dell'America. Passo ora le mie notti a leggere, uno dopo l'altro, i « Libri di Watergate » che ho comperato al mio arrivo: memorie, diari, romanzi, documenti di avvocati. Per la prima volta mi rendo conto in pieno di quanto sia stato grande il pericolo d'una tragica degenerazione della democrazia americana: forse più grande perfino che negli anni di McCarthy. Distorti e pericolosi erano i pensieri e gli odi nascosti nella mente di Richard Nixon! L'America è stata fortunata quando la bomba a orologeria nascosta nel cuore stesso della presidenza è stata fatta esplodere dalla scoperta casuale di quello che era, in realtà, uno scandalo di ben scarsa importanza! Per Nixon, come ha detto una volta Elliot Richardson, gli avversari politici erano sempre « loro »: una buona metà della nazione americana, compresa gran parte dell'elite intellettuale e politica, contro la quale egli progettava, dopo la schiacciante vittoria del 1972, di usare, legittimamente o meno, tutti gli immensi poteri della presidenza. Era deciso a « fargliela pagare », a prezzo di distruggere la stessa America. Non ebbe tempo di realizzare il suo sogno antiamericano. Ma, in verità, che colpo di fortuna fu Watergate! Per alcuni europei (e per Mao), Watergate eia soltanto un esempio incredibile di miopia, il prodotto di una impostazione provinciale e meschina di un problema che coinvolgeva vicende di storica importanza. Distruggendo l'immagine e l'autorità della presidenza, l'America avrebbe distrutto se stessa, la sua grande potenza e, con essa, l'equilibrio globale delle forze. Tale sarebbe stato il risultato delle manovre di un gruppetto di giornalisti presuntuosi, di giudici e politicanti ambiziosi. Questi timori, che in verità rivelavano una mancanza di comprensione della natura profonda della potenza americana, non erano però del tutto infondati, ma, a distanza di due anni, ci si rende conto, visitando oggi l'America, che questo Paese e questa democrazia sono stati salvati dagli scrupoli morali di quei giornalisti, giudici, senatori. Così fu salvata la fonte profonda della potenza americana, e cioè la fiducia degli americani nei valori della democrazia. Oggi, della grande crisi di Watergate, non si scorgono quasi più tracce. L'America forse non è mai apparsa più forte, fiduciosa, cosciente dei suoi compiti mondiali, di quanto sia oggi, a due anni da Watergate. ★ ★ Al Dipartimento di Stato rivolgo a uno degli uomini del vertice la domanda ovvia: cambierebbe la politica estera americana, e in che modo, se vincesse Carter? Ricevo la risposta ovvia, garbata ed esposta: «Se i nostri amici che lavorano per Carter dovessero prendere qui il nostro posto, il cambiamento sarebbe questione di stile, più che di sostanza ». Uno dei massimi consiglieri di politica estera di Carter, un politologo che tutti conosciamo, leggiamo, ascoltiamo, mi dice: « Carter è un internazionalista dichiarato. Ma il suo impegno in politica estera sarebbe diverso da quello degli ultimi due pre¬ sidenti. La sua visione delle responsabilità dell'America verso il mondo è molto più simile a quella del periodo 1945-1950, quando gli Stati Uniti fondarono il sistema internazionale. La suu è una visione architettonica.- Inoltre, il suo ordine di priorità sarà diverso: prima di tutto conteranno l'Europa e il Giappone. Il suo stile di politica estera sarà (io penso che sarà lui a vincere) molto personale: egli sarà l'architetto della sua politica estera, alla maniera di Kennedy o di Roosevelt, più di qualsiasi altro presidente. Sarà molto vigoroso: ha senso strategico e immaginazione ». Chiedo ancora: molti, fra gli attuali consiglieri di Carter, hanno spesso criticato la politica estera di Kissinger per la poca attenzione dedicata agli amici europei dell'America, e così pure per lo scarso impegno nel tentativo di costruire o rafforzare le istituzioni internazionali. Ecco la risposta: «C'è, nell'Amministrazione Ford, una notevole differenza- tra le cose dette e le cose fatte. Kissinger spesso parlava bene e agiva male. Una nuova amministrazione capace di coinvolgere e impegnare il Congresso, e l'Europa, nella realizzazione dei suoi obbiettivi a lungo termine, potrebbe ottenere risultati più concreti. Certo, potranno sorgere ostacoli insormontabili per la creazione di nuove istituzioni. Ma possiamo contare sul fatto che una nuova Amministra- zione americana con Carter affronterà tali ostacoli con il giusto ordine di priorità. Vogliamo partire su una nuova strada ». ★ ★ Che specie di Europa si troverà di fronte l'America di Carter, o l'America di Ford? Questo è il problema. A un seminario eurGpeo-americano presso Washington, ascolto uno dei miei politici europei preferiti, e uno dei più saggi, il ministro inglese dell'educazione Shirley Williams: richiama la nostra attenzione sui pericoli legati allo sviluppo « di un modello politico in Europa diverso da quello a cui gli Stati Uniti erano abituati ». L'emergere dell'eurocomunismo nell'Europa del Sud e soltanto una delle novità. Anche nel Nord, l'Europa socialdemocratica sta cambiando. Dove ci condurranno questi mutamenti? Sono d'accordo con Raymond Aron quando egli afferma (nel tentativo di decifrare il significato delle quattro elezioni europee del 1976: Portogallo, Italia, Svezia, Germania) che l'elemento più importante comune a tutti questi Paesi è l'inesistenza di partiti rivoluzionari o di ideologie rivoluzionarie importanti. Quali che siano i dubbi che giustamente vengono sollevati dalla recente conversione dei comunisti italiani e francesi alla democrazia pluralistica, quali che siano i timori che devono rimanere circa l'autenticità e l'irreversibilità del loro distacco dall'antico legame sovietico, non mi sembra esatto riassumere il significato delle quattro elezioni europee dicendo (come hanno detto alcuni osservatori) che le forze conservatrici avanzano nel Nord, mentre i comunisti avanzano nel Sud; e che pertanto una grande frattura distruggerà la struttura istituzionale dell'Europa Occidentale, e in particolare della Comunità europea. Mi sembra piuttosto che gli europei del Nord, come quelli del Sud, conservatori, liberali, socialdemocratici, cattolici e anche eurocomunisti, siano tutti egualmente confusi e incerti su come si debba affrontare il problema di governare oggi una democrazia industriale. Ciò significa forse che tutte le situazioni economiche e politiche sono ovunque egualmente instabili; in nessuno dei grandi Paesi europei si scorge una chiara maggioranza: i governi di coalizione e i compromessi più o meno storici sono la regola, più che l'eccezione. Tuttavia, non scorgo uno scisma nel futuro dell'Europa. Eppure ha ragione Shirley Williams quando ci ricorda che l'emergere di « un diverso spettro politico » in Europa, già poco chiaro per noi, deve essere realmente incomprensibile per gli americani. Tanto più grandi saranno le difficoltà da superare per fare fronte alla necessità assoluta (tale a me sembra; altri vedono le cose con più filosofia) di inventare in fretta nuove istituzioni internazionali, capaci di cogliere le occasioni e di sventare i pericoli tipici di questa nostra epoca, che definirei « della interdipendenza imperfetta», se non addirittura perversa. A me sembra che un'America forte, anche se confusa, si presenterà all'appuntamento, chiunque vinca le elezioni presidenziali del bicentenario. Ma vi sarà un'Europa per rispondere alla chiamata, quando l'America, ancora una volta, tenderà la mano ai suoi amici europei? Arrigo Levi Il cambiamento Usa e la risposta europea TACCUINO DI UN VIAGGIO AMERICANO Il cambiamento Usa e la risposta europea Una nazione rilassata e tranquilla vota oggi per Carter (favorito) o per Ford - Chiunque vinca, tenderà la mano al Vecchio Continente: ma l'Europa è in grado di sentire la chiamata? Washington, ottobre 1976. Come è difficile, per un viaggiatore di una lontana e agitata provincia dell'Impero, convincere i vecchi amici a parlare dell'America, anziché degli inquietanti svilup. pi nel proprio Paese d'origine, dal quale qui tutti appaiono decisamente affascinati! Alla vigilia del 2 novembre, le passioni elettorali non dovrebbero essere più calde? C'è da stupirsi: è possibile che l'America sia davvero così rilassata, tranquilla, contenta di sé, come sembra essere in questo suo duecentesimo anno, nel momento d'una elezione presidenziale che deve finalmente chiudere uno dei capitoli più drammatici della sua storia? La pressione degli avvenimenti in patria mi ha tenuto lontano per oltre due anni da quella che è la capitale dell'Occidente. Quando ho visitato per l'ultima volta Washington, lo scandalo Watergate doveva ancora giungere alla sua drammatica conclusione; la caduta di Nixon, che avevo seguito, due anni prima, nella sua trionfale campagna elettorale, non era affatto certa. Poi esplose la crisi istituzionale, che, molti temevano, avrebbe potuto annunciare la fine della breve età imperiale dell'America. Passo ora le mie notti a leggere, uno dopo l'altro, i « Libri di Watergate » che ho comperato al mio arrivo: memorie, diari, romanzi, documenti di avvocati. Per la prima volta mi rendo conto in pieno di quanto sia stato grande il pericolo d'una tragica degenerazione della democrazia americana: forse più grande perfino che negli anni di McCarthy. Distorti e pericolosi erano i pensieri e gli odi nascosti nella mente di Richard Nixon! L'America è stata fortunata quando la bomba a orologeria nascosta nel cuore stesso della presidenza è stata fatta esplodere dalla scoperta casuale di quello che era, in realtà, uno scandalo di ben scarsa importanza! Per Nixon, come ha detto una volta Elliot Richardson, gli avversari politici erano sempre « loro »: una buona metà della nazione americana, compresa gran parte dell'elite intellettuale e politica, contro la quale egli progettava, dopo la schiacciante vittoria del 1972, di usare, legittimamente o meno, tutti gli immensi poteri della presidenza. Era deciso a « fargliela pagare », a prezzo di distruggere la stessa America. Non ebbe tempo di realizzare il suo sogno antiamericano. Ma, in verità, che colpo di fortuna fu Watergate! Per alcuni europei (e per Mao), Watergate eia soltanto un esempio incredibile di miopia, il prodotto di una impostazione provinciale e meschina di un problema che coinvolgeva vicende di storica importanza. Distruggendo l'immagine e l'autorità della presidenza, l'America avrebbe distrutto se stessa, la sua grande potenza e, con essa, l'equilibrio globale delle forze. Tale sarebbe stato il risultato delle manovre di un gruppetto di giornalisti presuntuosi, di giudici e politicanti ambiziosi. Questi timori, che in verità rivelavano una mancanza di comprensione della natura profonda della potenza americana, non erano però del tutto infondati, ma, a distanza di due anni, ci si rende conto, visitando oggi l'America, che questo Paese e questa democrazia sono stati salvati dagli scrupoli morali di quei giornalisti, giudici, senatori. Così fu salvata la fonte profonda della potenza americana, e cioè la fiducia degli americani nei valori della democrazia. Oggi, della grande crisi di Watergate, non si scorgono quasi più tracce. L'America forse non è mai apparsa più forte, fiduciosa, cosciente dei suoi compiti mondiali, di quanto sia oggi, a due anni da Watergate. ★ ★ Al Dipartimento di Stato rivolgo a uno degli uomini del vertice la domanda ovvia: cambierebbe la politica estera americana, e in che modo, se vincesse Carter? Ricevo la risposta ovvia, garbata ed esposta: «Se i nostri amici che lavorano per Carter dovessero prendere qui il nostro posto, il cambiamento sarebbe questione di stile, più che di sostanza ». Uno dei massimi consiglieri di politica estera di Carter, un politologo che tutti conosciamo, leggiamo, ascoltiamo, mi dice: « Carter è un internazionalista dichiarato. Ma il suo impegno in politica estera sarebbe diverso da quello degli ultimi due pre¬ sidenti. La sua visione delle responsabilità dell'America verso il mondo è molto più simile a quella del periodo 1945-1950, quando gli Stati Uniti fondarono il sistema internazionale. La suu è una visione architettonica.- Inoltre, il suo ordine di priorità sarà diverso: prima di tutto conteranno l'Europa e il Giappone. Il suo stile di politica estera sarà (io penso che sarà lui a vincere) molto personale: egli sarà l'architetto della sua politica estera, alla maniera di Kennedy o di Roosevelt, più di qualsiasi altro presidente. Sarà molto vigoroso: ha senso strategico e immaginazione ». Chiedo ancora: molti, fra gli attuali consiglieri di Carter, hanno spesso criticato la politica estera di Kissinger per la poca attenzione dedicata agli amici europei dell'America, e così pure per lo scarso impegno nel tentativo di costruire o rafforzare le istituzioni internazionali. Ecco la risposta: «C'è, nell'Amministrazione Ford, una notevole differenza- tra le cose dette e le cose fatte. Kissinger spesso parlava bene e agiva male. Una nuova amministrazione capace di coinvolgere e impegnare il Congresso, e l'Europa, nella realizzazione dei suoi obbiettivi a lungo termine, potrebbe ottenere risultati più concreti. Certo, potranno sorgere ostacoli insormontabili per la creazione di nuove istituzioni. Ma possiamo contare sul fatto che una nuova Amministra- zione americana con Carter affronterà tali ostacoli con il giusto ordine di priorità. Vogliamo partire su una nuova strada ». ★ ★ Che specie di Europa si troverà di fronte l'America di Carter, o l'America di Ford? Questo è il problema. A un seminario eurGpeo-americano presso Washington, ascolto uno dei miei politici europei preferiti, e uno dei più saggi, il ministro inglese dell'educazione Shirley Williams: richiama la nostra attenzione sui pericoli legati allo sviluppo « di un modello politico in Europa diverso da quello a cui gli Stati Uniti erano abituati ». L'emergere dell'eurocomunismo nell'Europa del Sud e soltanto una delle novità. Anche nel Nord, l'Europa socialdemocratica sta cambiando. Dove ci condurranno questi mutamenti? Sono d'accordo con Raymond Aron quando egli afferma (nel tentativo di decifrare il significato delle quattro elezioni europee del 1976: Portogallo, Italia, Svezia, Germania) che l'elemento più importante comune a tutti questi Paesi è l'inesistenza di partiti rivoluzionari o di ideologie rivoluzionarie importanti. Quali che siano i dubbi che giustamente vengono sollevati dalla recente conversione dei comunisti italiani e francesi alla democrazia pluralistica, quali che siano i timori che devono rimanere circa l'autenticità e l'irreversibilità del loro distacco dall'antico legame sovietico, non mi sembra esatto riassumere il significato delle quattro elezioni europee dicendo (come hanno detto alcuni osservatori) che le forze conservatrici avanzano nel Nord, mentre i comunisti avanzano nel Sud; e che pertanto una grande frattura distruggerà la struttura istituzionale dell'Europa Occidentale, e in particolare della Comunità europea. Mi sembra piuttosto che gli europei del Nord, come quelli del Sud, conservatori, liberali, socialdemocratici, cattolici e anche eurocomunisti, siano tutti egualmente confusi e incerti su come si debba affrontare il problema di governare oggi una democrazia industriale. Ciò significa forse che tutte le situazioni economiche e politiche sono ovunque egualmente instabili; in nessuno dei grandi Paesi europei si scorge una chiara maggioranza: i governi di coalizione e i compromessi più o meno storici sono la regola, più che l'eccezione. Tuttavia, non scorgo uno scisma nel futuro dell'Europa. Eppure ha ragione Shirley Williams quando ci ricorda che l'emergere di « un diverso spettro politico » in Europa, già poco chiaro per noi, deve essere realmente incomprensibile per gli americani. Tanto più grandi saranno le difficoltà da superare per fare fronte alla necessità assoluta (tale a me sembra; altri vedono le cose con più filosofia) di inventare in fretta nuove istituzioni internazionali, capaci di cogliere le occasioni e di sventare i pericoli tipici di questa nostra epoca, che definirei « della interdipendenza imperfetta», se non addirittura perversa. A me sembra che un'America forte, anche se confusa, si presenterà all'appuntamento, chiunque vinca le elezioni presidenziali del bicentenario. Ma vi sarà un'Europa per rispondere alla chiamata, quando l'America, ancora una volta, tenderà la mano ai suoi amici europei? Arrigo Levi