L'ombra del "caso Madia,, grava sul processo Mazzotti di Mario Bariona

L'ombra del "caso Madia,, grava sul processo Mazzotti Novara - Domani parla Giuliano Angelini L'ombra del "caso Madia,, grava sul processo Mazzotti Nessuno si decide a chiarire la posizione dell'ex capo della mobile di Novara, coinvolto in una storia misteriosa di bombe "mafiose" - Eppure è lui ad aver condotto le indagini e operato l'arresto di alcuni imputati - Angelini ritratta: "Il presidente del tribunale mafioso non è Antonino Giacobbe" - Le prossime udienze (Dal nostro inviato speciale) Novara, 28 novembre. Domani, per dirla come Leonardo Sciascia, al processo Mazzotti sono di scena i «propalatori». Cioè i «canarini», quelli che parlano. Per essere più precisi prima si leggerà la confessione, 180 pagine circa, di Libero Ballinari, detenuto in Svizzera (e dichiarato contumace) e poi salirà sul banco degli imputati Giuliano Angelini. Di lui si sa tutto, o quasi. Quello che ha detto alla polizia ed ai carabinieri, quello che su di lui bene o male si è accertato e quello che di sé ha scritto lui stesso, un po' grafomane, in memoriali, diari, confessioni e lettere. Angelini confessa tutto, fin dal principio, perché vuole salvare la Dana Petroncini, Gli spiegano che se collabora, sarà perduto lo stesso, ma lei forse si salverà. E lui parla. Racconta insieme con Dana del processo mafioso che ha subito nell'uliveto di Gizzeria Lido dove un uomo «claudicante, obeso e flaccido, le mani sudaticce» lo giudica davanti ad una fossa e lo minaccia: «Bravo ragazzo, se parli qui dentro finisci». Dice che quell'uomo, gli altri «invitati» lo baciavano e lo chiamavano «padrino». Era un così perfetto ritratto che ben presto un nome corre sulla bocca di tutti e negli ambienti vicini alle questure interessate si parla di mandato di cattura per Momo Piromalli. Don Momo Piromalli, coinvolto già nel sequestro di Paul Getty Jr, capo di una «famiglia» della «ndrangheta» che passa per le più potenti. Il mandato di cattura per Don Momo non arriva. Si costituisce invece Achille Gaetano, calabrese, che teneva i legami tra contrabbandieri (gruppo Angelini, Menzaghi) e la mafia. Si consegna dopo aver tenuto una conferenza stampa ed aver spiegato certe cose secondo una linea ben precisa che non si esita a definire «fissata dalla mafia»; lo fa accettando il rischio dell'ergastolo. Poco dopo viene catturato Antonino Giacobbe. E' claudicante, obeso, e soprattutto c'è l'Angelini che l'accusa: «Lo riconosco, è lui. L'uomo che mi ha processato nel fondo di Gizzeria» dice in un confronto col Giacobbe dal quale è portato da Novara a Lamezia Terme sotto scorta. Antonino Giacobbe è sospetto per natura. L'aria del mafioso ce l'ha stampata in faccia. Si è precostituito un alibi facendosi ricoverare dal 23 giugno del 1975 nel manicomio di Girifalco (Catanza ro) e restandoci anche il 7 luglio (data del processo nell'uliveto). Per scoprire che poteva andare e venire dal manicomio come voleva e che aveva grossi appoggi un po' do- vunque, gli uomini del capo della Mobile di Nicastro Surace, e di Novara Madia, devono logorarsi. Alla fine però non ci sono dubbi. Niente mandato di cattura per Piromalli e mandato di cattura invece per Antonino Giacobbe, che finisce in carcere ed ora è nella gabbia della Assise di Novara il personaggio numero uno. Nel maggio 1975 ad istruttoria conclusa, il capo della Mobile di Novara Aldo Madia, incorre in un infortunio: una storia di bombe destinate ai carabinieri di Arona che avevano allontanato alcuni pregiudicati dalla cittadina. Madia è calabrese, tra lui e i carabinieri non corre buon sangue per un malinteso spirito di corpo. Finisce così che la storia prende sempre più piede e Madia è «comandato» a Torino. Pare che le bombe siano state trovate davvero, che ci siano altre voci in giro, ma intanto il «caso Madia» non viene affrontato. Nessun desiderio di chiarezza. Tutta l'inchiesta su Cristina Mazzotti, benché sotto la direzione del giudice istruttore Di Felice (che però non è pubblico ministero al processo perché per ragioni di salute ha preferito lasciare l'incarico), l'ha condotta il capo della Mobile di Novara. Il processo si fa su atti, che bene o male sono frutto del suo lavoro. Adesso Angelini ritratta: «Il presidente del tribunale mafioso — dice — non era Antonino Giacobbe». E accusa il capo della Mobile di Nicastro Surace e quello di Novara Madia, scrivendo: «Si teme di infangare il nome dell'ex commissario di Novara Madia o ancor di più quello del vicequestore di Nicastro Surace che mi estraneo dichiarazioni assurde ed infamanti ». Il gioco è diventato facile. Non c'è più niente di certo. L'ombra che qualcuno ha addensato (e che altri non vogliono dissipare) sulla figura del commissario Aldo Madia non aiuta certamente il processo. Fin qui però non un dubbio è stato avanzato. La difesa nella bordata di eccezioni che ha portato alle udienze preliminari, ha evitato addirittura di sfiorare il tema. La parte civile (più comprensibilmente, perché parte dal concetto che almeno quelli in gabbia pagheranno), tace a sua volta. E persino molti giornalisti così attenti a questo processo, sembrano non accorgersi di quello che accade: si sta imboccando un vicolo cieco. Mario Bariona Novara. Gli imputati al processo