Una strana storia di uomini e veleni di Bruno Ghibaudi

Una strana storia di uomini e veleni La "Cavtat,, in fondo al mare Una strana storia di uomini e veleni L'intervento del pretore di Otranto - Si vuole riportare in superficie alcuni fusti contenenti sostanze tossiche micidiali affondati con la nave jugoslava nel luglio di due anni fa E' una strana storia di uomini e di veleni, quella che siamo costretti a raccontare. Una storia di indifferenza, di ambiguità, di silenzi, di inefficienze o forse anche di connivenze, di pericolo e di mistero, sulla quale sembra difficile far luce come si dovrebbe. Una storia iniziata all'alba del 14 luglio 1974, quando nel punto più stretto del Canale d'Otranto la nave jugoslava «Cavtat» è stata speronata dal cargo panamense «Lady Rita» a poche miglia dalla costa pugliese. Con la nave sono sprofondate negli abissi 250 tonnellate di sostanze tossiche micidiali, sufficienti ad inquinare pericolosamente e per molti anni l'intero bacino del Mediterraneo. Da allora sono passati più di 27 mesi, durante i quali i responsabili della nostra incolumità e della nostra salute hanno spesso recitato una irresponsabile commedia mentre l'eventualità che il mare corrodesse le pareti dei contenitori liberando il micidiale veleno stava diventando sempre più un'amara certezza. L'ultimo atto di questa tragicommedia — ma solo in ordine di tempo — è il sequestro a sorpresa del relitto della «Cavtat», ordinato pochi giorni fa dal pretore di Otranto, dott. Maritati, e il conseguente blocco di ogni attività intorno ad esso. Il clamoroso intervento ferma, infatti, le due navi speciali (la «Proteo» e la «Ammiraglio Magnaghi») che, proprio pochi giorni fa, la Marina militare, dopo le sollecitazioni del governo, aveva inviato a Brindisi per portare in superficie qualche fusto e verificarne cosi le condizioni in vista del recupero di tutto il carico (909 fusti, 500 dei quali legati sul ponte e 409 nelle stive). Con il suo deciso intervento il pretore ha voluto riaffermare la volontà di partecipare direttamente al coordinamento delle operazioni e ha minacciato, qualora l'intervento della Marina militare non sia soddisfacente, di affidare ad un'impresa privata l'incarico del recupero. Perché questo aut ani? Perché tanta volontà di vederci chiaro e al più presto? Quali timori, oltre a quelli ecologici, lo spingono a stringere i tempi? Facciamo un passo indietro. Poco dopo l'incidente, si è saputo che la Cavtat trasportava 250 tonnellate di piombo tetraetile e di piombo tetrametile, due sostanze velenosissime impiegate, fra l'altro, per impedire la detonazione anticipata delle benzine nei motori più spinti. Un quintale di queste sostanze può contaminare più di un milione di metri cubi d'acqua. Una volta assunto dagli organismi viventi, il veleno intacca il sistema nervoso, provocando allucinazioni, convulsioni, malattie nervose incurabili e — naturalmente — la morte. Per rimanerne contagiati non è necessario assorbirlo direttamente: basta mangiare pesci che ne siano stati contaminati. Il carico micidiale si trova su un fondale a 88 metri di profondità. Una quota tutt'altro che proibitiva, per esempio, per un gruppo di terroristi che dopo aver sistemato in mezzo o vicino ai fusti alcune cariche esplosive detonabili per telecomando via sonar avesse voglia di ricattare i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Fin dall'inizio le autorità italiane, invitate da più parti ad intervenire, si sono rifiutate di farlo: la Cavtat era affondata al di là delle acque territoriali italiane, hanno spiegato, e quindi il problema non le riguardava. Ma un confine puramente teorico come quello di territorialità non basta a tener lontani i veleni o i pesci già contaminati. L'aspetto più inquietante è, comunque, il fatto che il punto del naufragio (40 gradi 03'54" latitudine Nord e 18 gradi 33'27" longitudine Est) definiscono un punto ben all'interno delle nostre acque territoriali. La stessa imperturbabilità e la stessa inerzia le nostre autorità hanno mantenuto anche in seguito, quando scienziati ed esperti di tutto il mondo hanno denunciato all'opinione pubblica il gravissimo rischio per il mare e l'immobilismo delle autorità italiane. In quelle denunce, largamente motivate e corredate di dati scientifici, c'era quanto bastava a concludere che bisognava intervenire senza indugi. Ma da Roma si continuava a tacere, e lo si faceva anche quando stavano emergendo i gravissimi danni che il potenziale pericolo della Cavtat stava per apportare al nostro turismo. E quando finalmente si è parlato, lo si è fatto per affermare — ma senza l'appoggio di alcun dato scientifico — che non c'era alcun pericolo. Sul relitto, a controllare lo stato di con¬ servazione dei fusti, nessuno aveva mai pensato di calarsi. A farlo dovevano essere i tedeschi, per iniziativa del settimanale Stern. Alla fine di settembre, il giornale ha inviato sul posto un'equipe ben attrezzata di sommozzatori, chimici, biologi e giornalisti. Le immersioni hanno fornito un quadro quanto mai preoccupante: il mare ha già corroso l'involucro metallico dei fusti per un terzo del suo spessore; per renderli irrecuperabili — e quindi per condannare il mare ad un avvelenamento sicuro — non è certo necessario un tempo altrettanto lungo. Non solo, ma molti fusti appaiono tanto malconci da far temere una rottura prematura. Posto che il recupero inizi immediatamente, dicono gli esperti tedeschi, ci vorrà almeno un anno prima che il veleno venga raccolto e neutralizzato. Non c'è quindi tempo da perdere. Le autorità italiane vengono avvertite ma la loro reazione è ancora una volta sorprendente: quando i tedeschi ritornano sul luogo dell'affondamento si accorgono che la boa di segnalazione non c'è più. Al suo posto trovano una lancia dei carabinieri che li invitano a Brindisi, dove la polizia li avverte che la loro presenza non è più gradita. In seguito si scopre che un'ingiunzione di pagamento per il recupero, fatta fin dall'ottobre 1974 alla compagnia proprietaria della Cavtat giace ancora oggi al tribunale amministrativo regionale della Puglia. Bruno Ghibaudi

Persone citate: Lady Rita, Magnaghi, Stern

Luoghi citati: Brindisi, Otranto, Puglia, Roma