I pugnalatovi sono fra noi di Igor Man

I pugnalatovi sono fra noi SCIASCIA CI PARLA DELLA SICILIA DEI MISTERI I pugnalatovi sono fra noi Con i killcrs rimangono, come nel 1862, 'Me forze che nascostamente li proteggono" - E' la nostalgia di un "ordine" autoritario che alimenta la violenza e ne copre di mistero le vicende, mafiose o terroristiche - La " sicilianizzazione " dell'Italia (Dal nostro inviato speciale) Palermo, 30 dicembre. A proposito dei ({misteri» di Palermo, che son poi, in buona parte, i misteri della Sicilia dove «niente serve a niente, poiché c'è sempre una forza più alta e fatale che determina tutto», Leonardo Sciascia ci rimanda a un passo del suo ultimo libro-inchiesta, «I pugnalatori», là dove lo scrittore «rilegge» le carte del magistrato piemontese Guido Giacosa: «I fatti cessano forse dall'esser fatti sol perché non se ne sa assegnare una ragione plausibile? E perché nessuno sa comprendere qual motivo avesse il principe di Sant'Elia per cospirare, si dovrà a priori negare che cospirasse e negare i fatti più gravi che lo colpiscono? Il motivo! E chi ha mai saputo penetrare nel cuore umano! E quanto spesso non si vedono uomini commettere opere inesplicabili». Parlo con Sciascia nel suo studio, al secondo piano di via Scaduto 10B. Nella macchina per scrivere è un foglio bianco, dalla finestra entra una gran luce che investe cataste di libri e una bella testa di donna scolpita da Emilio Greco. La moglie dello scrittore, gentile e discreta, ci offre un buon caffè, lasciandoci subito soli nel consolante silenzio dello studio. Sciascia mi fissa con i suoi occhi intelligenti e tristi. La conversazione procede a rilento, perché Leonardo Scìascia pesa attentamente le parole; parla sottovoce, spira da tutta la sua minuta persona quella modestia ch'è solo di certi protagonisti che so, d'un quadro, d'una storia irripetibile. I pugnalatori è certamente un libro di storia, intesa, come ha scritto Carlo Bo, alla stregua dì «ripetizione tragica di colpe, meglio di vizi insanabili di una certa società, di un certo modo di vivere». Un libro di sconcertante at tualità. Vi si parla della strategia della tensione, degli opposti estremismi. Conosciamo i "fatti orribili" che "funestarono la città di Palermo", il 2 ottobre 1862, e che ricordano tanti avvenimenti degli ultimi anni. Perché, domando, Sciascia si è servito di una sanguinosa storia del passato per raccontare, in un certo senso, fatti di oggi? «Tutte le volte che mi sono servito del passato, che ho rappresentato in un racconto fatti del passato, è stato per rappresentare e spiegare il presente», risponde. «Di certi tatti del presente conosciamo la natura, gli interessi che li muovono, il fine cui sono diretti; ma a volerla assumere in un racconto, la materia di cui si dispone, e cioè la cronaca, non ha trasparenza: è torbida, oscura. Bisogna che ci sia decantazione, distanza, distacco. Del resto, la molla del racconto storico (del vero racconto storico, poiché c'è un racconto storico diciamo d'evasione) è sempre stata il presente: dai Promessi sposi al Gattopardo». I pugnalatori si chiude nel segno del pessimismo: il processo liquidato, i mandanti impuniti, una soluzione inevitabile, tipicamente siciliana ovvero italiana. Una soluzione che potrebbe ripetersi: a Palermo o altrove, poniamo a Catanzaro? «Sì, certo. I pugnalatori sono ancora fra noi: e non sono quelli che materialmente pugnalano, ma tutte quelle forze che attivamente o passivamente li proteggono, e nascostamente. Lasciando quel titolo da romanzo popolare, ripreso da un vecchio romanzo popolare (Salvatore Mannino: / pugnala- tori - 1862, ristampato oggi dalle edizioni del Vespro, Palermo, n.d.r.), io intendevo mettere nel numero dei pugnalatori anche i senatori del Regno d'Italia, anche i ministri. In effetto, nascondendo la verità, sono stati loro i veri pugnalatori». Lei scrive che quelle pugnalazioni fatte a caso, non potevano avere altro fine che il far rimpiangere V ordine che la polizia borbonica sapeva mantenere. Ancora oggi è così. «Ordine: è una parola che mi fa paura... Sono nato nel 1921: posso dunque dire che nel 1925 ho cominciato a sentire parlare d'ordine. "In Italia ora c'è ordine": lo dicevano tutti Tutti, tranne una mia zia che nel cestino di vimini in cui teneva filo, aghi e forbici conservava il ritratto di Matteotti. Ogni tanto me lo faceva vedere e mi ripeteva che l'aveva fatto ammazzare "quello"; ma non si poteva dire, era un segreto tra lei e me. Nella mia mente si radicò allora il dubbio che non poteva esserci ordine, se "quello" (sapevo bene chi era, mi avevano portato alla stazione, una volta, per vederlo passare; e poi lo vedevo ogni giorno sul giornale) aveva fatto ammazzare Matteotti. Col tempo, il dubbio mi diventò certezza: quelli stessi che dicevano che c'era ordine non facevano che lamentarsi dei soprusi che subivano ogni giorno e da chiunque avesse anche minima autorità. Ad un certo punto, con la guerra, col razionamento, tutti si accorsero che il fascismo era disordine. Ma subito dopo si ricominciò a parlare dell'ordine che c'era col fascismo, e a distinguere i partiti d'ordine da quelli del disordine. Naturalmente, la democrazia cristiana era partito d'ordine... Qualche mese fa, sul rapido Milano-Roma, ho sentito alle mie spalle, da glottide emiliana, esplodere l'affermazione: "Il partito comunista è partito d'ordine". Mi sono voltato a guardare: chi l'aveva pronunciata era, anche somaticamente, direi maccarianamente, uomo d'ordine. Ne sono stato sconvolto... «Ma lei mi chiede perché questo rimpianto per l'ordine che effettualmente non c'è mai stato e questo desiderio che comunque ritorni. Ecco, bisogna distinguere: ci sono alcuni che hanno una concreta immagine dell'ordine, ed è il pagar poco coloro che lavorano e farli rigar dritto su quel poco; e questi qui rimpiangono un ordine che c'era davvero e ne vagheggiano il ritorno. Ma i più hanno rimpianto o sete di un ordine che non c'è mai stato e mai ci può essere: perché si tratta di un ordine imposto agli altri e mai a se stessi. Da questo disordine, che innegabilmente c'è, nasce l'istanza dell'impossibile ordine», E perché non si esce mai dal mistero? Crede veramente che, per citare Crispi, come lei fa a conclusione del suo libro, «il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come veramente sono avvenute»? «Afo, credo di aver smentito Crispi col mio racconto. La verità, per quanto difficile, sfuggente, larvatica, si finisce col vederla baluginare se non addirittura col raggiungerla. La verità cui credo di essere arrivato coi Pugnalatori è almeno questa: che il Sant'Elia poteva anche non essere colpevole, anche se con un ristretto margine di dubbio; ma lo Stato italiano, proteggendolo, coprendolo, impedendo il processo, lo era certamente». Un personaggio, nel suo libro, di sconcertante attualità, è l'ispettore Daddi. Non le ricorda, questo asso del doppiogiuoco, certi ambigui personaggi del nostro servizio segreto? «Naturalmente, l'ispettore Daddi mi ha ricordato da vicino tanti agenti del servizio segreto italiano di cui si è tanto parlato in questi anni». Lei accetta la tesi di un amico giornalista (chi è?), secondo cui la storia d'Italia dall'unità ad oggi è stata in gran parte condizionata da rivalità, da inimicizie dichiarate o celate tra siciliani. Quella tra La Farina e Crispi è la prima. Quella tra il Procuratore generale Carmelo Spagnuolo e il capo della polizia Vicari forse l'ultima. A questi due nomi son legati certi "misteri": la morte di Pisciotta, la scomparsa di De Mauro. Siamo dunque condannati al mistero? «Più che una tesi, è una battuta: ed è di Vittorio Ni- sticò. Ma con un notevole fondo di verità, e non soltanto riguardo ai misteri». Lei parla, a un certo punto del libro, dì «sicilianizzazione». Cosa intende per sicilianizzazione? E, secondo lei, questo fenomeno continua a ripetersi? «Il processo di sicilianizzazione dell'Italia nel 1862 non era ancora cominciato. Sì doveva, la sconfitta di Giocosa, a una classe dirigente italiana che ancora annaspava a trovare la chiave del dominio, di tipo coloniale, sulla Sicilia: e credeva di poterla trovare nei "gattopardi", mentre i conti doveva farli con i Sedara, con gli "sciacalli". Come li ha poi fatti: vedi Commissione Antimafia». Lei viene considerato uno scrittore politico. E' d'accordo su questo giudizio? «Tutti gli scrittori sono scrittori politici. E più subdolamente, più viscidamente, coloro che dicono di non esserlo. I puri. Gli astratti. Io lo sono esplicitamente». E cosa mi può dire della sua esperienza di consigliere comunale alla luce della realtà della Palermo di oggi? «La mia esperienza di consigliere comunale? Come scrittore, mi può anche valere a qualcosa, servirmi. Come cittadino, mi dà un senso di vertiginosa impotenza». Per tornare all'Italia sicilianizzata o no, le rivolgo una domanda che le è stata posta altre volte: siamo già arrivati al peggio o dobbiamo ancora toccare il fondo? «Non credo che toccheremo mai il fondo. Anche se usciremo da questa stretta economica, il dramma italiano — ma può anche essere una commedia — non finirà fin quando non si chiameranno le cose col loro nome. Tutto qui: ma è tanto difficile, per noi, chiamare le cose coi loro nomi». L'incontro con Leonardo Sciascia si conclude dunque con una nota di pessimismo. Certo, soprattutto in Sicilia, è terribilmente difficile chiamare le cose coi loro nomi. Ma fin quando esisteranno, fin quando potranno far sentire la loro libera voce uomini come Sciascia, come i magistrati di Torino che hanno assolto Michele Pantaleone (che ha dato nomi precisi a certe "cose" siciliane), la verità si potrà un giorno vederla baluginare, se non addirittura raggiungerla. Igor Man Palermo. Leonardo Sciascia nel suo studio (Foto Grazia Neri)