"I ministri non volano"

"I ministri non volano" "I ministri non volano" Roma, 16 dicembre. Attraverso la tv a circuito chiuso, in un grigiore di immagini opache ed evanescenti, la scena può sembrare irreale: due ex ministri (a cui s'aggiungerà a tarda sera un ex presidente del Consiglio) siedono in stalo d'accusa dinanzi alla commissione inquirente del Parlamento. L'ex ministro Gui cerca di apparire disinvolto, riesce perfino a sorridere. L'ex ministro Tanassi è inquieto, agita le braccia, beve un bicchiere d'acqua dopo l'altro, s'asciuga l'i sudore. Non sappiamo come andrà a finire la vicenda, forse questa di oggi è soltanto la fase di un cerimoniale destinato a perdersi in un buio senza verità, ma è la prima volta che in Italia è possibile assistere a una così drammatica sequenza di vita parlamentare e giudiziaria. Cerchiamo di descrivere qualche momento della memorabile giornata. Luigi Gui è il primo a essere interrogato. Entra in aula alle 10 e 5, accompagnato dal suo avvocato. E' teso, pallido. I suoi capelli bianchi rifulgono come un alone di neve sullo ! schermo tv. Si vede subito che preparato a uno show ben congegnato e argomentato, col conforto di una montagna di carteggi e di documenti che scarica sul tavolo e su una sedia. Al commissario D'Angelosante (pei) che esibirà un documento dicendo: « Queste carte sono prove », Gui risponderà spazientito: « Anch'io ho le mie carte ». Nella sala stampa corre un sottile brivido di emozione quando il presidente Martinazzoli legge le generalità dell'ex ministro: « Gui Luigi, figlio di Corinto e di Pinzan Angela, nato a Padova il 29 settembre 1914... ». Sono particolari come questi che fanno pensare che, al di là delle apparenze, stiamo assistendo a un vero processo. Gui ha passato gli ultimi otto mesi della sua vita in una maniacale ricerca di argomenti a sua discolpa. E' preparato, conosce a memoria ogni pagina e ogni riga dei cartelli della Lockeed, in inglese e nella traduzione italiana, estrae dalla borsa un dizionario inglese (« E' di Hazon, il mio maestro d'inglese all'Università ») per contestare l'esattezza della traduzione di un verbo o di una data. Si serve spesso di un'iterazione oratoria, come un personaggio di Shakespeare, quando ripete sarcastico: « C'erano lì due milioni di dollari e io, disonesto, bramoso, ma stupido, io non li ho presi! ». Chi sa che contro di lui non esistono prove. Manca l'anello finale dell'accusa: il passaggio del denaro nelle sue mani. Quel che viene fuori dalle domande dei commissari sono indizi lacunosi, come il presunto pagamento di 78 mila dollari al « team of the previous minister » (ossia /'équipe del ministro precedente, che potrebbe essere lui), e la concatenazione logica del congegno di corruzione, che si mise in moto quando egli ancora sedeva sulla poltrona di via XX Settembre. Gui si difende cominciando a distruggere, fino al limite del grottesco, l'autorità e la responsabilità del ministro della Difesa. « 11 ministro non è un tecnico, il ministro non vola sugli aerei, il ministro non rischia la vita ». Sono i militari che sanno tutto, che volano, che rischiano, e che perciò decidono l'acquisto degli « Hercules ». Che fa il ministro? I! ministro firma: « E chi doveva firmare la lettera di intenti se non io? ». Anche le competenze finanziarie per il pagamento della commessa sfuggono al ministro della Difesa e si perdono nelle nebbie del ministero del Tesoro, della presidenza del Consiglio, dell'Imi, e più in generale nell'oscuro mondo dei « tecnici ». « Qui bisognerebbe chiamare i tecnici », dice Gui quando non riesce a rispondere con convinzione alle domande dei commissari. Ma dei tecnici e dei militari non ha una stima illimitata. Quando si parla dei dissensi sulla scelta degli « Hercules », con riferimento alle polemiche del generale Pasti, Gui taglia corto: « Nessuno con me sollevò obiezioni. Nessun generale venne a rapporto da me. Avrebbero potuto farlo avvalendosi dell'articolo 40 del regolamento militare ». A tratti, c'è nell'interrogatorio qualche intermezzo di sapore paesano-veneto: « Dei fratelli Olivi conosco soltanto Marcello e una sua sorella sposata al senatore Carraro. Gli Olivi sono otto o nove. Non sono di Padova, ma di Treviso. Marcello venne a Padova durante la guerra partigiana e io lo conobbi all'Antoniano, di cui era direttore suo zio... ». Sempre parlando degli Olivi, Gui si lascia sfuggire questa frase: « Quel signore (nota: Luigi Olivi, l'uoGaetano Scardocchia (Continua a pagina 2 in ottava colonna)

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