Elettra di Jancso: eterna lotta tra la libertà e la tirannide

Elettra di Jancso: eterna lotta tra la libertà e la tirannide PRIME VISIONI SULLO SCHERMO Elettra di Jancso: eterna lotta tra la libertà e la tirannide Antologia di nudi e torture nelF "Histoire d'O" con la Clery «Elettra» di Miklos Jancsò con Mari Torocsik, Joszef Madaras, Gyorgy Cserhalmi. Una produzione ungherese a colori, al cinema Centrale. (s.r.) Forse balletto politico, non certo happening, piuttosto poesia anche nel senso tecnico: il film di Jancsò è scandito in strofe (il famoso piano-sequenza), dentro le quali le rime e le cesure sono date dai movimenti degli attori e della macchina da presa. Una costruzione perfetta, come tanti cerchi che si allargano e rinascono da se stessi, capace in virtù della sua forza allusiva, di portare il peso dei simboli politici, di trasformare la storia mitica di Elettra in un apologo, in una «poesia» sul potere tirannico e su la libertà attraverso una continua rivoluzione. Il mito è raccontato su un unico scenario, in una classica unità drammatica, è steso sulla pianura ungherese, percorsa dalle linee traverse dei cavalli e avvolta dalle azioni del coro, del popolo. Elettra, a quindici anni dall'assassinio del padre Agamennone per opera dell'usurpatore Egisto, rappresenta, in mezzo ai suoi, ormai domati dalla tirannia, la voce e la speranza della libertà. Ella attende il fratello Oreste che dovrà vendicare, insieme con l'omicidio, l'oppressione. Oreste torna infatti, dapprima come un messaggero sconosciuto, poi, rivelatosi alla sorella e alla gente, come vendicatore. Il tiranno, rotto il cerchio della paura, viene ucciso. Tocca ad Elettra e ad Oreste portare la «rivoluzione» verso la libertà e non verso la tirannia. In che modo? C'è un dissidio tra loro: forse Elettra ha troppo assaggiato la dittatura per non volerla ripetere, forse Oreste ha troppa fiducia nella forza spontanea del «coro» per preoccuparsi di quello che succederà, cioè della politica dopo la libertà riconquistata. Il regista immagina che essi si uccidano l'un l'altra e che rinascano subito dopo per affrontarsi ancora. Dice Elettra: «Dovremo avere la forza di rinascere ogni giorno». Il simbolo si carica nella conclusione anche di un uccello rosso, un elicottero, sul quale salgono Elettra con il fratello, suscitatori e insieme passeggeri di una speranza che si snoda in una canzone. Quando non ci saranno più borghesi e proletari, dice press'a poco la canzone, si potrà dare agli uomini una vera dignità, e la rivoluzione sarà stata una cosa giusta, una promessa realizzata. Come si nota, i simboli sono chiari c la dialettica sufficientemente addolcita, facilitata: leggera da capire anche perché poggia su una costruzione tanto armonica. Questo fare poesia di Jancsò può nella ripetizione far sospettare il manierismo; ma in «Elettra» il manierismo è tenuto a bada da ima costante fona interiore, da una voglia autentica di sciigliere il potere e di contrapporgli la libertà di tutti e di ognuno. E' certamente significativo che un appello tanto intenso giunga in un momento in cui, all'Est come all'Ovest, la tentazione politica non volge all'utopia, ma per faticosi giri della storia e pena dell'economia, al totalitarismo e alla sopraffazione. ★ * Histoire d'O di Just Jaeckin con Corinne Clery, Udo Kier, Anthony Steel, Jean Gaven. Francia-Germania Occ. Colori, sexy. Cinema Gioiello. (s. c.) Anche la signorina « O » dopo tante polemiche, qualche mese di anticamera e un po' di tagli approda sugli schermi italiani. Una volta nell'imminenza delle feste natalizie gli esercenti cinematografici proponevano al pubblico i classici prodotti per famiglie sul genere di Mary Poppins e Ben Hur. Oggi pare ohe i gusti di molti spettatori siano più violenti, né accennino ad addolcirsi in vicinanza dell'abete o del ramo di vischio. Le urla e le lacrime di mademoiselle «O» sotto lo scudiscio di amanti e torturatori che si accaniscono a perseguitarla (lei accondiscendente) echeggiano per la sala di proiezione dai primi fotogrammi fino agli ultimi. Marchiata, frustata, picchiata, violentata, umiliata, venduta, schiavizzata fino all'imposizione di un anello impudico, la bella e generosa protagonista della storia tratta dal romanzo di Pauline Reage (pseudonimo sotto il quale pare nascondersi Dominique Aury, compagna per anni di Jean Paulhan) accetta ogni sofferenza in nome di Amore. Ma quello di « O » un sentimento patologicamente masochistico. Tanto da lasciar supporre che l'autrice dell'opera letteraria, nel '54, fosse una femminista ante litteram e, più che delle possibili interpretazioni esistenziali, si preoccupasse di tracciare con crudele ironia l'elenco paradossale dei misfatti che si possono compiere contro la donna sotto il pretesto dell'amore. Nel film di Jaeckin non si avvertono né ironia, né indagini psicologiche, né tematiche esistenziali. La vicenda si appiattisce in una rassegna di nudi che cercano di esorcizzare una inconscia preoccupazione dal peccato nell'eleganza formale, nelle raffinatezze fotografiche, nel gusto sofisticato delle scenografie. Nell'insieme il prodotto finisce col provocare più uggia che brividi erotici. Film meno stimolante e abile del «capostipite» Emmanuelle, questa Histoire d'O, nel panorama dello scadente cinema sexy-violento, ha almeno il merito di non cedere troppo alla volgarità e al cattivo gusto. Corinne Clery

Luoghi citati: Elettra, Francia, Germania