In Gorizia, la città divisa di Francesco Rosso

In Gorizia, la città divisa IL MOVIMENTO POPOLARE CONTRO IL TRATTATO DI OSIMO In Gorizia, la città divisa Tagliata dal confine, fronteggiata dalla Nuova Gorizia jugoslava, è tuttavia un esempio di collaborazione fruttuosa con i vicini - Dal trattato in discussione attende, a differenza di Trieste, un rilancio di iniziative • Le tragiche memorie del Carso (Dal nostro inviato speciale) Gorizia, dicembre. Questo breve andare, son cinquanta chilometri scarsi da Trieste a Gorizia, per chi abbia un po' d'anni e di memoria, è un susseguirsi di turbamenti. Tornano alla memoria le molte letture: ritrovi sempre lì, testimonianza tremenda, il Carso. L'ho ripercorso un po' tutto, seguendo itinerari che hanno radici in lontani ricordi, e lo trovo immutato. Ribollire di pietraie che Piovene ha definito dal «bianco equivoco», un magma minerale che si deforma in tumulto di basse colline, in voragini di caverne inesplorate tra cui balena e scompare il Timavo prima di confondersi nell'Adriatico. Pietre intrise di sangue nella dissennata prima guerra mondiale, ritinte di rosso nella seconda, sempre sangue su questo confine senza pace. Guardo senza capire molto. «Il confine è lì, segnato da quei ceppi bianchi — mi dice l'autista — se vuol fare una passeggiata di duecento metri in Jugoslavia nessuno la fermerà». Non voglio andare in Jugoslavia, ma a Gorizia. Ricordate Vittorio Locchi? «E voliamo nel sole, anima mia!». Eppoi canta coloro che sono morti, o che delirano «credendosi ancora sul Carso e suir Isonzo, sul Calvario e sul San Michele nella mota rossa e nelle pietraie seminate di morti». Puoi essere tetragono, anche cinico, ma quando ti vedi venire incontro il San Michele, e vedi il Vipacco, ma ancor più l'Isonzo che scorre tumultuoso e lutulento per le grandi piogge di quest'inverno inclemente, ti rendi conto delle passioni che sconvolgono le genti di queste zone e le contrastanti, anche furenti, emozioni che scatena il trattato di Osimo. Il confine è lì, a due passi dalla strada che percorriamo; attraversiamo un villaggetto col cimitero tagliato in due, coi morti che hanno la testa in Italia ed i piedi in Jugoslavia. Ma chi mai, e con quali criteri ha tracciato questo assurdo confine? I ricordi, le nostalgie sono dure a morire. Ti vengono incontro tanti pensieri e persone, innanzitutto Ungaretti: «Questo è l'Isonzo, e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell'universo». Ecco, cerchiamo l'universo in questo piccolo cosmo che sta divorandosi per impedire che il trattato di Osimo diventi una realtà. Gorizia è lì, appendice di questa intricata storia che molti triestini stanno avvelenando. Salgo al castello, punto di osservazione ideale. Ci venne Montesquieu secoli addietro e lo trovò ameno. Ora tante cose sono rimaste di là, con ossari e templi che commemorano: Caporetto, ad esempio; ma tentiamo di dimenticare. Lì di fronte c'è il San Michele, cento metri di collina carsica concimati da sessantamila morti tra italiani ed austriaci. Vogliamo ritentare un nuovo, apocalittico eccidio per alcune centinaia di metri di pietraia carsica, come il San Michele, l'Hermada, Doberdò, oppure per altre colline di là del confine. altre pietraie non dissimili da Caporetto? A Trieste, pur di respingere il trattato di Osimo, sarebbero disposti tinche a tanto; ma a Gorizia, che pure è la città più dilaniata dal nuovo confine, che ne pensano? Andiamo sul breve colle su cui sorge il castello absburgico, e guardiamoci in- torno. La città è tagliata in due, una bella fetta è rimasta di là, con la stazione transalpina. Il grosso edificio vagamente liberty, sormontato da uria stella rossa, è stato per molto tempo il centro della curiosità turistica italiana, tanto intensa che una modesta osteria, per le molte frequenze è diventata, oggi, un ristorante quasi di lusso. Ma più nessuno va a fotografare i poliziotti jugoslavi, che non fanno più colore. «Questo è il confine più aperto del mondo — mi dice il sindaco, Pasquale De Simone. — Vuole espatriare? Non ha bisogno di saltare la rete metallica della stazione. Vada duecento metri più in là, in un prato, e passa senza nessun intoppo». Cerco di comprendere lo spirito di Gorizia, calma e piccola città di provincia, quarantamila abitanti, ma con un respiro internazionale, davvero mitteleuropeo, come Trieste, se non più. Disoccupati? Nemmeno uno. Benessere più che ricchezza. Una densità di negozi superiore a qualsiasi città italiana, in rapporto alla popolazione. Un tem.oo Gorizia era definita la «Nizza borbonica», i funzionari di Maria Teresa e Cecco Beppe venivano qui in pensione attratti dal clima temperato anche in inverno e dalle fonti d'acque salubri. E' rimasta un po' quella Gorizia d'altri tempi, mercantilistica e internazionale. Si parlavano tre lingue, tedesco, italiano, sloveno. Ora il tedesco è un po' in declino. I rapporti con gli sloveni? «Ottimi, direi — risponde Delio Lupieri, presidente della Camera di Commercio. — Gorizia ha sempre svolto un ruolo di mercato dell'entroterra italo-sloveno. Da quando i rapporti con la Jugoslavia si sono messi al bello, anche il settore sloveno è tornato a gravitare qui. La quantità di negozi glielo conferma». Gorizia come Trieste, città che vivono col retroterra sloveno. A Gorizia, questo benessere si nota più facilmente, perché gli abitanti sono più comunicativi e le iniziative tra i due settori più facilmente realizzabili. C'è, ad esempio, diretto con passione e perizia dal professor Silvano Paguro, docente di filosofia, un Istituto di sociologia internazionale, che credo sia più noto negli Stati Uniti che in Italia; l'istituto si interessa, tra molte altre attività, delle minoranze etniche, a livello post-universitario. La presenza di un istituto di tale levatura dice già a quale livello si muovano i goriziani nei rapporti coi loro vicini sloveni. «Gorizia è sempre stata una città cosmopolita. A parte la "Nizza absburgica", c'è una componente internazionale che non si riscontra altrove — mi dice il sindaco De Simone. — Gli sloveni sono un po' piagnoni, si lagnano sempre, ma qui ci sono scuole, dalle elementari alle magistrali, alle commerciali, al liceo, in lingua slovena». La vocazione all'internazionalismo di Gorizia è riscontrabile un po' ovunque, anche nelle comunicazioni ferroviarie. Come se avesse previsto quanto sarebbe accaduto mezzo secolo dopo, Cecco Beppe costruì due stagioni: una transalpina, ora in territorio jugoslavo; una meridionale, diretta a Trieste e Venezia, che ora serve ai goriziani, sia pure con regolarità lumachesca. L'impronta mitteleuropea, addirittura viennese, è molto più evidente a Gorizia che a Trieste. Gli ospiti di riguardo degli Absburgo non andavano a Trieste, ma venivano qui. Carlo X, il fuggìasco re di Francia, riparò da queste parti, a Castagnevizza, con la sua sfrangiata corte. E qui ci sono dei tumuli sepolcrali di principi e principesse absburgiche nelle chiese dai campanili e guglie a cipolla che ricordano lo stile tirolese. Eppure, nonostante i continui richiami ad un'epoca che i vecchissimi (ma sono ormai pochi) considerano della «Austria felix», a Gorizia non si avverte la convulsa, tragica avversione al trattato di Osimo che avvelena l'atmosfera di Trieste. «Osimo chiude un capitolo di una vicenda dolorosa» mi dice il professor Pagura. «Certo, il confine che ci taglia in due pesa, psicologicamente più ohe economicamente, ma con buona volontà possiamo sopravvivere benissimo. Poi, questo è un confine apertissimo, non ci sono mitra alla sua guardia», mi dice il sindaco De Simone. «Osimo ci libera da questi confini incerti — dice Lupieri, presidente della Camera di Commercio —. Finalmente potremo realizzare l'autoporto, il nuovo valico commerciale, il raccordo autostradale con Lubiana, l'Austria e la Baviera». La quiete provinciale di Gorizia si illumina cosi di brividi cosmopoliti, remoti ed attuali. Oggi la città è invasa da automobili con targa jugoslava; ne leggo alcune, targate Go, ma in nero su bianco. E' la Gorizia jugoslava, una città cresciuta a ridosso della stazione settentrionale, attorno alle frazioni di Sant'Antonio e Piuma, un tempo italiane. Sorta con scopi politici o per necessità? «Un tempo, Gorizia era il centro commerciale dell'area divenuta Repubblica di Slovenia; chiuso il confine — dice ancora il sindaco — si sviluppò, ma per impulso naturale, una città nuova, che ha circa ventimila abitanti. Riaperti i confini, gli sloveni sono tornati di qua, perché trovano ciò che di là gli manca. Non c'è antagonismo, direi». Allora, questa nuova Gorizia slovena che intenderebbe fagocitare la vecchia Gorizia italiana è soltanto l'ombra di un timore? «Direi di sì, per ora non dobbiamo temere invasioni ostili», dice ancora il sindaco. Di invasioni ve ne sono, quotidiane, qui come a Trieste, anche se meno vistose. A Trieste i jugoslavi approdano da tutta la Confederazione, salgono dalla Macedonia, dal Montenegro, dalla Serbia; lo stracelebre Orient Express, il treno delle spie e delle mondane fin-di-secolo, porta oggi ì contrabbandieri d'oro e di stupefacenti, i mercanti all'ingrosso di blue jeans e di pornografia stampata e filmata, che poi arriva fino a Murmansk. Qui a Gorizia c'è il piccolo commercio, sempre gli stessi articoli, tranne la pornografia e la droga, ma cospicuo. Profumi, oro, ricambi per auto (il parco automobilistico jugoslavo è molto cresciuto, ma attinge soprattutto all'usato; da qui la necessità di frequenti riparazioni). Non che in Jugoslavia manchino di abbigliamento, ma è roba un po' dozzinale, e qui trovano il prèt-à-porter di una certa linea. Se dovessi dare un'immagine di Gorizia, direi ch'è il modello di buon vivere. Si parta ancora un poco tedesco, ma soprattutto italiano, sloveno e friulano. Anche in questo già avanzato dicembre, il clima è mite, i colori della campagna accesi. Siamo quasi al termine del Carso e dall'altura del castello si può vedere tutto un panorama che non sai se definire affascinante o tragico. Gli sconvolgimenti della pietraia ti offrono l'aspetto di scheletri dilavati dal vento e dalla pioggia; poi ci sono le pinete che tingono di verde gli scoscesi dirupi che avvallano nelle misteriose doline, i quercioli d'oro rinsecchito, i ginepri, i rampicanti che sanguinano coi viticci arrossati, attorti agli scogli e agli alberi già prossimi al letargo invernale. Questo Carso che pare non abbia confini, che dilaga di qua in Italia e di là in Jugoslavia, è una terra unica; ha assorbito il sangue di migliaia e migliaia di uomini morti inutilmente in una guerra dissennata prima, in un'altra non meno folle poi. Che cosa potrà essere ancora, questo Carso di Slataper e di Stuparich, di Benco e di Saba, degli «stranieri» Locchi e Ungaretti che l'hanno solo intravisto, ed amato, pur essendo di fuori? Difficile rispondere. Ma da Gorizia, dove nasce il vento più rapinoso e limpido, la grande bora che poi dilaga giù prepotente, violenta, su tutto l'Adriatico, fino in Grecia, spira anche un'aria di civile comprensione che dovrebbe far riflettere i più passionali triestini su quei rapporti di buon vicinato, che il trattato di Osimo dovrebbe stabilire. Francesco Rosso