La rivolta in tipografia

La rivolta in tipografia L'ARTE SPERIMENTALE La rivolta in tipografia Auguste Dupin, il geniale detective concepito dalla fervida invenzione di E. A. Poe, ci ha insegnato che non c'è nulla di più nascosto di ciò che viceversa ci sta sotto il naso in bella vista. Questa osservazione elementare vale subito per una realtà che ci portiamo addosso quasi dalla nascita, ma che appunto per tanta vicinanza finisce per sfuggirci: il linguaggio. Ben inteso, non ci si vuole riferire qui tanto all'aspetto ideale di esso, cioè ai significati, i quali richiedono un inevitabile sforzo mentale, apparendo di conseguenza come il luogo stesso dell'intenzione e del controllo. L'invisibilità per troppa vicinanza attinge piuttosto gli aspetti materiali del linguaggio: i suoni, gli atti di fonazione, se lo si usa a livello orale; i tratti grafici, nella sua versione scritta. E' come un corpaccio enorme che per troppa incombenza scompare dal nostro angolo percettivo; e finiamo anche per dimenticare le dure fatiche attraverso cui a suo tempo abbiamo appreso sia a parlare che a scrivere. Lasciamo pure da parte per il momento le prime, dato che si perdono troppo lontano sia nella storia degli individui che in quella del gruppo, nell'ontogenesi come nella filogenesi. Chi ricorda, almeno a livello conscio, le pene e gli sforzi sopportati per imparare a parlare? E cosi pure si perde nella notte dei tempi preistorici il momento in cui l'umanità assunse l'uso della parola. Ma abbiamo invece ancora qualche ricordo dei traumi patiti quando si trattò di passare alla scrittura: ricordiamo magari tutte le difficoltà sopportate nel dover segmentare la bella e spontanea fluenza di qualche tratto sonoro, ove il suono consonantico si appoggia alla sua brava vocale, e di dover quindi praticare una scissione dei due elementi, una loro trascrizione disgiunta, cosa che allora ci appariva del tutto arbitraria, perfino ridicola. E che dire delle difficoltà di capire quando finisce una parola di senso compiuto e ne comincia un'altra? O di separare i tronchi robusti dei so starnivi dalla vegetazione parassitaria, ma così intimamente allacciata, degli articoli e delle preposizioni? E i lacci costrittivi della cosiddetta ortografia, con l'uso delle doppie o no, degli apostrofi e delle apocopi? Per non parlare poi della pratica materiale dell'esercizio scritturale: l'apprendere a reggere lo strumento scrittorio, la penna ieri, la biro oggi, il dover privilegiare l'uso della destra, il rispettare un andamento orizzontale e una posizione corretta di fronte al foglio... Ma tutto questo è ancora niente rispetto alle repressioni che l'umanità, almeno quella occidentale, dovette conoscere a partire dal 1450, cioè dalla invenzione di Gutenberg, quando accanto alla scrittura a mano subentrò e prese sempre più sviluppo quella « a macchina ». Ce ne ha illustrato tutte le possibili conseguenze il canadese McLuhan, ma qui dovremo rapidamente ricordarne alcune. Termina, con la tipografia, quel tanto di libertà che pure è concesso alla chirografia, o scrittura a mano, dove ognuno di noi può eseguire lo spartito ideale dell'alfabeto secondo mille varianti personali, allacciando le varie lettere in modo organico, scegliendo una scala di grandezza, decidendo di fare margine in un certo punto oppure no. Nel caso della tipografia le lettere sono stereotipe, per definizione, tutte uguali, staccate, separate l'una dall'altra, costituiscono una spettrale « folla solitaria »; inoltre hanno l'obbligo di rispettare una rigida griglia di orizzontaliverticali (la « gabbia » tipografica). Mali, tutti questi, che ben inteso sono risarciti sul piano della funzionalità: i caratteri tipografici permettono una lettura molto agevole e soprattutto una riproduzione in serie. Perché si sono volute ricordare queste vicende nella storia materiale della scrittura, abbastanza ovvie e scontate? Per poter far rilevare meglio come il proposito di molti ar tisti d'avanguardia, da quasi mezzo secolo a questa parte, sia stato quello di ripercorrere a ritroso tali grandi tappe, secondo il solito intento di liberare l'umanità da certe imposizioni repressive e autoritarie che oggi non sono più legittimate da esigenze pratiche e tecnologiche. Il primo obiettivo attaccato, quindi, è stato quello della conquista storica relativamente più re¬ cente, cioè appunto la tipografia. Da Mallarmé a Apollinare ai futuristi ai dadaisti, è stata tutta una serie di sabotaggi, potremmo dire, volti a sconquassare il ben contesto ordine tipografico, ma agendo dall'interno di esso, dato che non era ancora concepibile la possibilità di uscirne totalmente. Si gioca di interlinee, si viola il criterio dell'unitarietà del carattere e del corpo adottati, impostando viceversa un'orgia di tutti i possibili caratteri di cui disponga una tipografia ben fornita, in modo che i neretti si mescolino ai corsivi, i « Garamond » ai « bodoniani » o ai titoli a scatola: anche secondo un ricorso al caso, all'accoppiamento collagistico (lo predicava il capofila del dadaismo, Tzara: ritagliare tanti spezzoni da libri e giornali, agitarli in un cappello e quindi estrarli...). Eppure in tutti i movimenti dell'avanguardia storica la veste di ciascuna let tera restava irreprensibilmente confinata nella tipografia. . In questo dopoguerra sembra che dapprima ci sia posto solo per delle varianti intensive o estensive. E' del primo tipo la poesia « concreta », che effettua una specie di elettrolisi delle parole scindendole nelle lettere, e qualche volta rompendo anche queste in frammenti più minuti; ma l'intervento dirompente è pur sempre effettuato sui tipi della stampa; e i cocci, quasi paurosi di precipitare nell'informe, si dispongono lungo un ideale pallottoliere troppo memore della « gabbia » tipografica. E' del secondo genere la poesia visiva, che in fondo continua ad applicare il precetto di Tzara di agitare vari spezzoni nel cappello, solo che ora vi ripone anche il materiale illustrato dei rotocalchi. * + Ma la grande svolta si ha quando il diffondersi di certi mezzi tecnici di riproduzione permette finalmente di fare un passo ulteriore a ritroso, verso i primordi (ontogenetici e filogenetici), verso il recupero della scrittura a mano e della parola parlata. A favore della prima gioca l'uso sempre più vasto della fotografia, e delle fotocopie, delle fotolito ecc.; a favore della seconda, il diffondersi dei magnetofoni, veri e propri elettrodomestici che entrano in tutte le case. Il privato, il personale (i tic di grafia, il timbro e l'altezza dei suoni, magari i difetti di pronuncia) cessano di essere elementi di disturbo per divenire anch'essi valori perfettamente conservabili e comunicabili. Qualche esempio. Un artista genovese, Plinio Mesciulam, fa raccolta di documenti di scrittura precaria: un conto di ristorante, una cartolina illustrata con saluti, e quindi sottopone a ingrandimenti fotografici progressivi, via via più spinti, quei tratti tremuli e incerti, o viceversa sicuri e baldanzosi; poco alla volta, ne vengono grandiose traiettorie, lazos mulinanti, parabole ascen-1 denti. La nostra chirografia rivela uno splendore insospettato dando luogo a un repertorio molto vario di ispessimenti o di diradamenti, di incontri-scontri con la granulosità della carta; e compare anche quel tanto di thrilling che è proprio di un'inchiesta poliziesca volta ad analizzare un documento sospetto. Un altro artista, Bruno Di Bello, prima ingigantisce una scritta con l'aiuto della foto, e poi la dissemina in frammenti vari, ricavandone una bella costellazione a raggiera. Un altro ancora, Fernando De Filippi, si esibisce in trascrizioni pubbliche della scrittura di Lenin: quasi un gesto cannibalesco di appropriazione non solo del pensiero, ma anche del «corpo» di un certo messaggio ideologico. E poi, ben inteso, c'è l'enorme territorio del magnetofono: lo occupano i cosiddetti poeti fonetici, che spezzano anch'essi le unità tradizionali di senso in tanti tronconi. Gli spezzoni vengono fatti giganteggiare mediante intervalli che li isolano, in una specie di puntinismo acustico (Arrigo Lora Totino); oppure vengono sottoposti a giochi combinatori e di permutazione (Bob Cobbing); oppure si mira a dilatare un brano di materia fonica, informe, pre-verbale, fino a fargli assumere proporzioni mostruose (i soffi e i sibili di Paul De Vree). Il corpo della parola finalmente si rivela in tutta la sua imponenza, diviene come il suolo di un pianeta misterioso su cui atterriamo, mettendolo a fuoco con prospettive via via più ingrandite; dalla disattenzione verso di esso, passiamo a una attenzione morbosa e ossessiva. Renato Barillì

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