Un grande Otello alla Scala di Massimo Mila

Un grande Otello alla Scala IL CAPOLAVORO VERDIANO HA VINTO ANCORA UNA VOLTA Un grande Otello alla Scala Splendidi protagonisti, con l'accorta regìa di Zeffirelli - Come Kleiber interpreta lo spartito e la figura di Jago (Dal nostro inviato speciale) Milano, 8 dicembre. Apertura della stagione in maggiore, e, secondo la tradizione, con quel grande Verdi « per adulti » che è l'Otello. Non è questo il luogo per stare a illustrare la grandezza di questo capolavoro, oggi talvolta tortuosamente messa in dubbio, quando tanti entusiastici ammiratori trovano le Alzire e le Giovanne d'Arco. Qui il lettore, sebbene edotto dalla teletrasmissione e perciò in grado di farsi un'idea per proprio conto, vuol sapere subito come era l'esecuzione, com'era lo spettacolo. Buono, molto buono; non straordinario. Un'esecuzione che aveva dalla sua una grossa briscola, cioè lo stesso Otello. Placido Domingo ha superato molto bene questa prova suprema che pare sia tale parte per un tenore: parte nella quale, spesso, le esigenze drammatiche vanno a detrimento delle qualità vocali, per cui si è generalmente condannati a sentire Otelli intensamente drammatici, ma che cantano cordialmente male, oppure belle voci dalle quali esula il personaggio. Domingo canta sempre bene: mai che si senta una sbavatura, una forzatura, uno sbandamento nella raucedine per amore di iperespressione. Eppure il personaggio c'è: nobile, pieno di dignità, mai rassomigliante a un farneticante Idi Amin, come talvolta viene concepito, mai gigione, eppure dominatore, un vero comandante e uomo d'azione, e nello stesso tempo commovente. Verdi e Boito Quasi fa tanta pietà lui quanto Desdemona, sostenuta da una Mirella Freni per la quale è pane quotidiano l'incarnazione della gentilezza femminile conculcata dalla violenza rapinatrice e ambiziosa dei maschi. Una Desdemona di sottile lirismo, soprattutto nel quarto atto, forse vocalmente una piccola linea al di sotto di certe memorabili prestazioni di cui la Freni è capace. E poi Jago, il motore e il meccanismo dell'azione, secondo la consuetudine drammatica verdiana di assegnare questa funzione a voci di baritono o di mezzosoprano: consuetudine che Verdi continua nell'Oielto imperterrito, secondo i criteri d'una drammaturgia immutabile fin dall'Uberto, e che sempre ha assegnato alla gelosia questa funzione di scatenatrice della sventura, dall'Emoni all'Aida, dal Trovatore al Ballo in ma¬ schera. Nessuna « svolta » di Verdi in Otello a causa dell'intervento boitiano. Quando sarà noto tutto il carteggio intercorso tra i due durante la composizione di Otello e Falstaff, si vedrà che i due libretti sono confezionati su misura esattamente come quelli di Piave. Verdi aveva semplicemente cambiato sarto, e ne aveva preso uno di lusso; non che si riducesse a indossare abiti fatti. Cappuccini è un Jago vocalmente ineccepibile, a conferma di quel momento di piena felicità che il suo organo sta attraversando, di maturità raggiunta quando la freschezza della giovinezza è ancora presente. Soprattutto nelle parti « di conversazione », quando cioè Jago lavora alla sua trama nei riguardi di Cassio, di Roderigo, dell'inviato Lodovico e, in parte, dello stesso Otello, il personaggio disegnato da Cappuccini è irreprensibile per interpretazione musicale e scenica. Lo è meno in quelle emergenze solistiche, come il « Credo », o quasi solistiche, come il giuramento « marmoreo » alla fine del second'atto, il cui valore è oggi appunto messo in dubbio da ascoltatori e giudici improvvisamente schizzinosi, quando invece sono disposti ad inghiottire con entusiasmo le più sconvenienti turpitudini delle opere minori di Verdi. Cappuccini non ci ha nessuna colpa se canta queste parti un poco nello stile di Rigoletto. E' una consuetudine generalmente invalsa nell'uso, ma profondamente sbigliata. Rigoletto è un uomo che patisce ingiustizia, Jago è un uomo che perpetra l'ingiustizia. Certo, con arti subdole, e questa è la circostanza che ha potuto a poco a poco suggerire una ingannevole somiglianza con quell'altro personaggio toto coelo diverso. Sarebbe mai venuto in mente a Verdi di far cantare il Rigoletto a Maurel? Mainò! (e gli specialisti dovrebbero dirci se Rigoletto fosse tra i ruoli del grande baritono marsigliese). Chi dovrebbe mettere in guardia il cantante per impedirgli di « rigolettizzare » Jago? Non certo il Tegista perché si tratta di questione squisitamente musicale. Il direttore d'orchestra. E veniamo così a quest'altro protagonista della serata, il direttore Carlos Kleiber, che dopo il Cavaliere della rosa diretto nella scorsa stagione ha conquistato in massa il pubblico milanese (salvo un isolato quanto tenace oppositore dal loggione). E certo è un eccellente direttore: duttile, mobilissimo, dotato d'una gesticolazione molto vistosa ma appropriata, che 10 impone all'attenzione quasi quanto i personaggi stessi. Sotto la sua bacchetta l'orchestra suona a meraviglia: gli equilibri fonici sono — si può arrischiare la parola — perfetti, le proporzioni dinamiche calcolate (o piuttosto raggiunte d'istinto) secondo norme infallibili d'ingegneria musicale. Per di più, cura moltissimo il palcoscenico (ed appunto per questo avrebbe dovuto impostare diversamente le culminazioni solistiche di Jago). Ma tanto impeccabile lindura di suono orchestrale è anche un poco 11 limite di questa esecuzione ed il motivo per cui non la si possa annoverare, pur nella sua eccellenza, tra quelle straordinarie e pienamente rivelatrici della misura artistica di Otello. Un espressionista Svanisce infatti, in così ben regolata concertazione, la dimensione espressionistica in cui consistono l'originalità e la grandezza di quest'opera. Otello è il primo capolavoro di espressionismo nel teatro musicale. Dopo, bisogna venire fino a Wozzeck, e più ancora a Lulù, per trovare un impiego così spregiudicato della materia suono: nei momenti culminanti delle catastrofi (e catastrofe può essere tanto la tempesta in ma¬ re sulle navi di Otello quanto uno spintone sgarbato a Desdemona) Verdi lavora ormai direttamente sul suono, perfino sul rumore, passando oltre il disegno delle note, che non ha più nessuna importanza e si riduce a scalette fulminanti, a elementari contrasti del grave e dell'acuto, a scatenamenti di percussione, a modi d'attacco del suono e, naturalmente, ai timbri strumentali. Questa sbalorditiva originalità di concezione musicodrammatica (in confronto alla quale fan ridere le ricercatezze e le « novità » letterarie di Boito) l'aveva intesa perfettamente un Furtwaengler. Non vien fuori nell'esecuzione, pur così degna e pregevole per tanti altri versi, di Carlos Kleiber, che, anzi, si fa un dovere di sillabare le note e farle sentire tutte ben distinte, anche nei momenti di più catastrofica e allucinante confusione. Sulle scene e la regia di Zeffirelli nutrivamo inquietudini dopo aver letto una breve intervista nella quale il regista prometteva un « Otello diverso ». Fortunatamente no. Non è affatto un Otello « diverso », è un Otello solidamente tradizionale. Una volta concesso qualcosa all'innocente mania di questo regista di far volare oggetti per aria (qui sono dei sacchi nella scena del duello Cassio-Montano), e tollerati i servi di scena che si attarda¬ no in scena fastidiosamente durante le prime battute del dialogo di Jago e Cassio all'inizio del second'atto, il resto funziona bene, e ci sarà pure una parte di merito del regista se Domingo scolpisce un così nobile Otello, e in genere tutti recitano, agiscono e si muovono assai bene. Il gioco del fazzoletto è sfruttato con qualche ostentazione, ma anche con molta efficacia. La struttura della scena permette di risolvere egregiamente il sempre problematico terzetto dove Jago provoca le equivoche vanterie amorose di Cassio, e Otello origlia, di solito in maniera ridicola, mentre qui tutto è logicissimo ed accettabile. Le scene del secondo e terz'atto sono un po' chiuse, soffocate, rispetto all'apparenza fiorita di giardino e di esterno che di solito gli si attribuisce. Dicono che una certa staticità e modestia dei giochi di luce fossero conseguenza di esigenze della ripresa televisiva. Restano da nominare gli interpreti delle parti minori: Giuliano Cannella come Cassio, personaggio che meriterebbe maggiori riguardi, Dino Raffanti come Roderigo, Luigi Roni, il migliore, nella parte di Ludovico, Orazio Mori, Giuseppe Morresi e Jone Jori. E il coro, ottimo, istruito da Romano Gandolfi. Successo lietissimo e meritato. Massimo Mila

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