Quando il Turco prese Bisanzio

Quando il Turco prese Bisanzio I DOCUMENTI D'UNA TRAGEDIA Quando il Turco prese Bisanzio Vi sono momenti che spiccano con vivido risalto nel grigio rotolare degli anni: la caduta di Gerusalemme, il sacco di Roma rivestono un significato che trascende la portata militare e politica, assumono il valore d'una svolta decisiva della storia. Il mito nasce quando la città conquistata e distrutta non rappresentava soltanto un caposaldo strategico o il centro politico ed economico d'uno Stato, ma anche il simbolo di valori che per molti e per molti anni furono sacri: la Gerusalemme data alle fiamme dai legionari di Tito era un santuario per i Giudei disseminati nel Mediterraneo, l'Urbe saccheggiata dai Visigoti conteneva i sepolcri non solo degli Scipioni ma degli Apostoli. Scaduta nel buio di secoli miserabili e cruenti, Roma delegò il suo prestigio alla capitale sorella. La Nèa Rome costruita da Costantino sul Bosforo raccolse e custodì la tradizione imperiale, la cultura antica, fu il segnacolo estremo della cristianità — benché scismatica — alle soglie dell'Islam. Mentre in Europa avvenivano invasioni, lento assestamento di popoli, assimilazione reciproca di culture diverse, germogliavano nuove forme artistiche, sociali, politiche — feudi, ducati, comuni, signorie, monarchie — alle porte dell'Asia Bisanzio rimase immutata entro le mura erette nel 416 da Teodosio II, come una rupe contro la quale si erano abbattute le ondate barbariche (Goti, Unni, Magiari, Arabi), sempre dirottate verso Ovest. E poi, il 29 maggio 1453, un fragore insostenibile coprì ogni altra voce, una chiazza di sangue si allargò dal Bosforo, colò fino all'Europa: dopo un attacco massiccio per terra e per mare, Costantinopoli fu conquistata dai Turchi. ★ * Non che l'evento non fosse prevedibile, anzi era atteso e si può dire scontato; al tempo stesso, ritenuto impossibile. Da un secolo circa i Turchi avevano effettuato un vero e proprio accerchiamento, spingendosi in Asia Minore, in Rumenia, distruggendo i regni di Serbia e di Bulgaria, toccando la Macedonia, il Pelo ponneso, l'Epiro; si erano in filtrati entro la stessa compa gine del logoro Impero d'Oriente sia come mercenari sia con trattati, mai rispettati, sia con parentele. Ma da pochi anni, da quando aveva occupato il trono, il ventenne Maometto II aveva aggiustato il tiro: Costantinopoli si trovava esposta a cannoni di portata mai vista, piazzati sugli spalti d'una fortezza eretta al di là dello Stretto, di faccia alla città; navi da carico venivano intercettate, i rifornimenti ostacolati. Il dominio dell'antica Bisanzio era ridotto a pochi chilometri quadrati di territorio, chiuso in una morsa di ferro; ma era sede d'un patriarcato ecumenico, grande base commerciale, porto frequentatissimo dalle navi europee. Negli ultimi anni, ministri, diplomatici, sacerdoti avevano lanciato appelli drammatici; l'imperatore Costantino XII aveva chiesto interventi al re d'Ungheria e alle potenze italiane, aveva acconsentito con una cerimonia solenne a celebrare l'auspicata unità delle Chiese; lettere di privati avevano fatto presente in tutti gli ambienti responsabili l'imminenza del pericolo; la caduta di quell'estremo lembo d'Europa nelle mani della crescente potenza ottomana avrebbe avuto gravi conseguenze economiche, oltre che culturali e religiose. Pareva che, nel terrore diffuso, la coscienza cristiana si ridestasse; ma poi, distolti da altri interessi, da rivalità reciproche, da riluttanza a soccorrere una Chiesa scismatica, né l'Austria, né l'Ungheria né le repubbliche marinare né il pontefice né gli Aragonesi di Napoli si mossero. L'Europa venne meno alla sua tradizione, ai suoi compiti storici, ai suoi impegni morali. ★ * Nella bellissima edizione della Fondazione Valla (ed. Mondadori), con un lavoro capillare e, al tempo stesso, di vasto respiro, A. Pertusi di quell'avvenimento clamoroso registra le ripercussioni immediate, le reazioni dei contemporanei. In tempi come questi, in cui la storia esamina quasi unicamente prezzi, dogane, emissioni monetarie, calmieri e tecniche del lavoro, per un conformismo al materialismo storico che lo stesso A. Donini, in un recente dibattito, ha definito « selvaggio », lo studioso si è interessato unicamente ai riflessi psicologici della caduta di un impero. La sua è una ricerca paziente di documenti, raccolti non solo per il loro valore contenutistico — notizie, cifre e partecipazione umana alla tragedia — ma anche per il modo e i tempi di propagazione di una notizia a metà del XV secolo: dai grandi centri, da quelli più vicini dove approdarono i pochissimi scampati, come i cerchi dell'acqua si dilatano quando vi cade una pietra, così si diffusero costernazione, raccapriccio, fosche previsioni per il futuro — pareva che, imbaldanzito dalla vittoria, Maometto intendesse estendere il suo dominio fino a Roma. Arrivarono dappertutto le descrizioni inorridite dello sterminio, il saccheggio, gli stupri, l'entità dei riscatti richiesti per i prigionieri innumerevoli, i sacrilegi, le crudeltà disumane. A Venezia si seppe un mese dopo; a breve distanza in luoghi più lontani. Ed ecco gli scritti di uomini di mare, funzionari, sacerdoti, i rapporti del capo della difesa, il genovese Giustiniani, dell'arcivescovo di Mitilene. Questi denuncia, tra gli assalitori, la presenza di « cristiani traditori » e descrive la bombarda trainata da 150 coppie di buoi, i cunicoli scavati nel fossato sotto le mura, le 250 galere turche che, non potendo forzare l'entrata del porto sbarrato da una catena, furono trasportate a braccia via terra sù per la collina e rimesse in mare all'interno del Corno d'Oro; Nicolò Barbaro, medico d'una galera veneziana, scrive: « El sangue se coreva per la tera come el fosse sta piovesto », mentre accenna alla rovina economica il podestà genovese di Pera (« I titoli delle compagnie commerciali non valgono più nulla »). Altri resoconti furono inviati in Germania dai Cavalieri di Rodi, lettere al Papa dal sagace E. Silvio Piccolomini, e poi memoriali di mercanti, racconti di greci, di polacchi, di russi, nonché, infine, quelli trionfanti degli stessi Turchi, i quali presentano Maometto come il promotore glorioso di una guerra santa e si compiacciono del bottino, degli adolescenti e delle fanciulle portate via (« Le belle dai morbidi capelli, fresche come il gelsomino, dalle guance violette » che i vincitori « facevano marciare avanti a sé con violenza, quasi spingessero leonesse, leopardi o branchi di antilopi... » e canzoni e lamenti di anonimi, che invocano vendetta. Le autorità e gli umili esprimono tutti lo stesso sconforto. Da Babilonia, da Troia, da Cartagine, da Gerusalemme, da Roma, si sono levate nei secoli le stesse voci di pianto. Un medesimo racconto di orrore, ripetuto tante volte, sembra quasi il simbolo degli eventi umani; o, come direbbe Elsa Morante, della Storia. Lìdia Storoni Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli