Tutti a New York

Tutti a New York LA "CAPITALE,, DELLE ARTI Tutti a New York New York, dicembre. I Berliner Philarmoniker con Karajan, alla Carnegie Hall; Boulez che dirige una novità di John Cage, Renga ivith Apartement House 1776, alla Avery Fisher Hall (la cronaca dice che la sera della prima esecuzione vi fu un esodo in massa del pubblico: gli abbonati si sentirono « offesi » dal frastuono irriducibile dell'orchestra, la quale inseguiva «logaritmi» ricavati da I Ching e da Thoreau...). Quindi, come visiling artists, Dietrich Fischer-Dieskau; o i due santoni britannici, Gielgud e Richardson che, tenuti per mano da Peter Hall, mettono in scena a Broadway il No Man's Land di Pinter (con quanta ironica grazia, a confronto della rigida, allusiva vetrinistica che ne fanno qui da noi, a Roma, De Lullo e Valli...). E poi, ancora, Gavazzeni al Met, con un Trovatore elegiaco fino allo spasimo, dove la Scotto strappa il fiato fra inauditi rallentando dell'orchestra, ma dove Pavarotti-Manrico ti fa ascoltare un « Ah, sì, ben mio » degno del Consalvo di Leopardi, e Shirley VerrettAzucena canta ogni nota cavandola chissà da dove, poiché la sua possibilità di catturarti oltrepassa i metri consueti del « volume », dell'« estensione » eccetera. Infine, sempre al Met, una prova, una mattina, dell'Esclarmonde di Massenet, in scena Joan Sutherland e sul podio suo marito Richard Bonynge. Ogni tanto la Sutherland si interrompe, trova a che dire con Bonynge, inciampa nel costume, scaraventa in terra la tiara gemmata che il personaggio richiede (lei, una specie di imperatrice Teodora invaghita d'un cavaliere francese, Giacomo Aragall, mezza maga e mezza sacerdotessa, che non si nega a volare su un ippogrifo per raggiungerlo: lo rapisce su un'isola deserta e lì fanno insieme un loro second'atto del Tristano, di cui, sia pure per il grondante manierismo, è difficile dimenticarsi). La scena, la regia erano di Beni Montresor: Montresor aveva dato fondo a tutto il Gustave Moreau possibile, ripulendo i pennelli in un alchermes che sarebbe piaciuto a Odilon Redon. Ma quel che contava era Massenet, scrutinatore di oblique passioni, di insidiosi ricatti, durante la prova sempre corretti dalle impuntature bizzarre della diva, che però, all'improvviso, cantò a voce piena il miele della sua seduzione, sempre scalciando contro lo strascico abnorme dell'abito, lasciandoci tutti sbigottiti. Sembra che New York prepari tanti spettacoli insieme, chiami a raccolta il meglio che può, dalle sue viscere e dall'Europa, per confermare a se stessa la propria forte natura, e l'ampia capacità del suo marsupio. Il gesto con cui la città si presenta vuol essere sempre infallibile e felice: cosi come infallibile e felice è la Manhattan Skyline, l'irto profilo di grattacieli che paiono gettati a caso sull'orlo di un tappetino fluttuante a pelo d'acqua laggiù alla Battery, sotto Wall Street, per mostrare a chiunque arrivi dall'Oceano, di quale rigore e di quale follia questa città, monumento a se stessa e al secolo che l'ha inventata, sia nutrita. ★ ★ Le esperienze artistiche più diverse si affiancano disinvolte come le più diverse monete correnti arrivano qui, loro massimo mercato. La luce violenta degli spots brucia ogni avvenimento, e chiede che l'immagine incenerita venga subito scambiata con la successiva. La simultaneità consente convivenze imprevedibili, contribuisce alla creazione di cataloghi universali, di universali protocolli che possono aver corso però lo spazio di un mattino. Siamo nella colossale Alessandria del ventesimo secolo, serbatoio e biblioteca di ogni sua possibile idea. In una galleria della Settantanovesima Est, la Acquavella (d'origine italiana il proprietario), sono raccolti sessantotto Monet mai visti, vengono da collezioni private la maggior parte: la mostra ne istituisce il capitolare. Ce ne sono di giovanili, del 1864 o del 1867, vogliosi di cogliere la liquidità dell'aria, o l'abbacinante riflesso azzurro della neve, come nei più preziosi Courbet; fino ad arrivare a un folle « Nympheas, pont japonais» del 1922 (il pont japonais è il ponticello del giardinetto di Giverny, delizia e riparo dell'artista, chissà quante volte da lui dipinto), la cui visione è qui diventata la poesia di un incorreggibile astigmatismo, un fluttuare di blu e di verdi, di verdi-blu, di rossi, di giade screpolate. Si scende di qualche blocco lungo Madison Avenue, e sulla Settantacinquesima, a ridosso del Whitney Museum, in altra galleria, alla Xavier Fourcade, si scoprono invece dieci grandi oli, 1976, recentissimi, autore uno dei leoni dell'Espressionismo astratto di dieci anni fa, De Kooning. Il colore è guidato sonnambolicamente da una mano che lo fa smodato e torrenziale, straricco, emozionante da seguire nelle più avventate metamorfosi; il blu di Prussia si stempera nel grigio e nel rosa, si torce nell'avorio lucente e vischioso. Paiono questi quadri il risultato d'una inesausta lotta con l'angelo: il pittore chiede al colore non solo d'essere colore, ma testimonianza di una emotività non facilmente domata; e l'angelo, forse soltanto con un'occhiata, lascia fallire il proposito, mentre l'immagine pittorica esplode come lava. ★ ★ A ben guardare, la distanza di quel « pont japonais » del '22 e queste tele untitled, numerate da 1 a 10, è ridottissima: sembra che qualcuno abbia inserito fra il nostro occhio e i colori una lente dilatante, e il ribollio dell'ombra di una felce nel ruscello si sia trasformato nello spurgo d'una polla vulcanica. Il rapporto fra Monet e un espressionista astratto come De Kooning è il più semplice che si possa istituire alla luce dell'alessandrinismo e del sincretismo che ci divora; ma New York, vitalissimo archivio dei giorni nostri, non si nega a combinazioni più sottili, più spericolate. Sempre lungo la Madison, siamo all'altezza della Sessantaquattresima Est, la Wildenstein Gallery allinea « Modem Portraits: the self and others», autoritratti e ritratti di pittori contemporanei, da Stieglitz, il fotografo maestro di Man Ray, visto da Picabia come una vecchia Kodak capovolta, agli autoritratti di Max Beckman, di Oldenburg (che si vede con' la borsa del ghiaccio in testa e un vago trucco da clown sotto l'occhio), di Schiele (svergognato impudico San Sebastiano), fino a Vuillard, vecchio barbuto di bianco, che specchiandosi nel suo stesso cesso, fra alcune telette appena abbozzate, si lava melanconico le mani nel lavabo, e tutto diventa una fluida crema attratta dalla luce. Non solo: ci sono i più giovani, William Beckmann primo degli altri, che fa mostra dei suoi jeans sgualciti, delle sue basette e dei suoi muscoli torniti, in una pittura quanto mai caramellata dall'iperreali¬ smo; poi ci sono le foto di Avedon (Pound a torso nudo, mani in tasca, bocca spalancata nel canto e gli occhi rovesciati come Omero); le foto di Irving Penn (Picasso con un cappello da torero in testa che pare una lobbia grigio-perla; e Cecil Beaton, cravatta bianca, mantello nero, candidi capelli come piume leggere, disceso in terra Nelson redivivo). Che dire della foto di Otto Dix e sua moglie, autore August Sander; o della matita di Arshile Gorky con cui l'artista ha ritratto sua madre? Andy Warhol è presente con un acrilico che ritrae Roy Lichtenstein. Con questa mostra, New York-Alessandria ha rubricato il sofferente narcisismo dell'epoca, e l'ha fatto con gioia sfacciata (c'è anche una foto di Man Ray, che è un monumento al travestitismo più arrischiato). Si chiedeva Clive Barnes sul New York Times di qualche domenica fa: è New York ancora la capitale del mondo delle arti? Rispondeva a se stesso, dopo un confronto con Parigi e Londra: noi sprechiamo i nostri capitali. « If one happens to be interested in the arts, New York is the happiest city in the world to live in. But New York is, I believe, in imminent jeopardy»: amando l'arte, New York è la città più felice da vivere, ma sta correndo un brutto rischio... Credo sia difficile obiettare agli argomenti di Barnes: tutto costa in modo leggendario, e non c'è nessuno che abbia in mente una politica del risparmio e della spesa oculata. A Parigi e a Londra si guarda con maggior cura alle cifre in rosso nei bilanci. Il rischio del collasso è all'orizzonte. Ma si ha l'impressione che chissà per quanti anni New York continuerà a essere un appuntamento obbligato per l'arte. Quando Karajan, alla Carnegie Hall, mise giù la bacchetta su l'ultima nota della Nona di Beethoven, la sala, riempita fino all'orlo, urlò in piedi un applauso pazzesco, interminabile. In molti vedemmo allora il primo violino dei Berliner Philarmoniker, mentre il suo direttore con la mano gli sfiorava una spalla, mettersi a piangere dall'emozione. Si potrebbe avanzare il dubbio che quelle lacrime fossero segnate nel copione. Comunque, era il copione preparato per New York, per quella folla enorme che applaudiva pestando i piedi sul parquet. Enzo Siciliano