È morto Britten di Massimo Mila

È morto Britten GRANDE MUSICISTA INGLESE È morto Britten Aldeburgh, 4 dicembre. // compositore inglese Ileniamìn Britten è morto stanotte nella sua residenza di Aldeburgh. Aveva 63 anni e soffriva di cuore. La fama di Britten era esplosa subito dopo la guerra, con quella memorabile esecuzione di Peter Grimes a Londra il 7 giugno 1945, che non solo rivelò l'apparizione d'un nuovo operista, e proprio di là dove meno uno se lo sarebbe aspettato, ma che parve addirittura un lieto pegno di rinascita dei valori d'arte e di civiltà: le rovine fumavano ancora, eppure ecco che l'opera lirica — il genere più complicato e laborioso di produzione musicale — già accendeva un luminoso fuoco di bengala, quasi ad affermare che l'arresto creativo dei cinque anni di guerra era stato soltanto una compressione forzosa delle circostanze esterne, ma che nulla era compromesso, nulla era perduto, nulla era realmente distrutto. Peter Grimes fu proprio questo: la rivincita immediata delle forze creative dell'uomo, l'arte accantonata e tenuta in castigo e rintanata nei rifugi antiaerei, che subito salta fuori a proclamare: «Niente paura. Eccomi qua ». Che la buona novella venisse da un Paese che in passato era stato piuttosto importatore che produttore ed esportatore di melodrammi, e da un musicista quasi sconosciuto di trentadue anni, pareva aggiungere al fatto, lieto in sé e per sé, particolari ancora più entusiasmanti. In realtà, solo la chiusura delle frontiere aveva impedito di prendere conoscenza di lavori da concerto come Les illuminalions, per soprano e archi (1939) e di Serenade, per tenore, corno e archi (1943), che in altre circostanze avrebbero imposto il giovane musicista all'attenzione europea. Vi si sarebbe riscontrato già in buona parte quel miscuglio di esperienze antiche e moderne, fuso nel fuoco d'una personalità non potentissima, ma quanto mai informata e colta, che nel Peter Grimes sembrò esprimersi in un linguaggio suo, eclettico finché si vuole, eppure mai ascoltato prima nella sua interezza. Mallarmé e la poesia inglese, Purcell e Monteverdi, Verdi e Wagner, Mahler e Alban Berg, Strawinsky e Schònberg, queste e altre ancora le fonti a cui il musicista si abbeverava con spregiudicata avidità, ma non in un casuale saccheggio, bensì tutto riconducendo sotto il comune denominatore di un'aggiornata cultura, non soltanto musicale, e soprattutto di un marcatissimo gusto personale. In Inghilterra, poi, l'apparizione di Britten fu salutata con entusiasmo tutto particolare. Era ormai più di mezzo secolo che si protraeva la la boriosa nascita, o rinascita, della musica inglese: da Elgar a Vaughan Williams, da Frederick Delius a Edmund Rub bra, da Arnold Bax a Gustav Holst, da Arthur Bliss a Walton, da Frank Bridge a John Ireland (entrambi maestri di Britten), questa gestazione si protraeva spasmodicamente. Che cosa mancava ancora alla nuova musica inglese per esistere realmente? Si vorrebbe dire: la gioia di far musica. La scioltezza e la naturalezza della spontaneità. Con Britten, co! pur dottissimo Britten, tutto infarinato di cultura storica, la musica inglese conosceva forse per la prima volta dopo l'età elisabettiana (e dopo la particolarissima eccezione ottocentesca di Gilbert e Sullivan) quella dimensione peccaminosa che la mentalità vittoriana aveva contributo a tenerle lontana: il piacere. In seguito il cammino verso la maturità non era stato tutto cosparso di rose per il giovane musicista. La fioritura meravigliosa di Peter Grimes era avvenuta in un momento storico particolarissimo, in cui nessuno sapeva ancora bene quale aria tirasse sulla musica contemporanea. Fu forse l'ultimo momento, quello, in cui sopravvisse ancora il fronte unico della «musica moderna» contro la dittatura romantico-ottocentesca, fronte unico in cui si sentivano uniti Schonberg e Strawinsky (nonostante alcune graffiate del primo), Bartok e Hindemith, Casella e Milhaud. L'unità si spezzò proprio allora, quando col favore della pace e della ricuperata libertà d'espressione e di comunicazione, tutti poterono mettere le carte in tavola. E si vide che si giocava a giochi diversi: c'era chi continuava a giocare coi vecchi tarocchi, e chi giocava con qualche nuova diavoleria. Britten, salutato al suo apparire come un musicista moderno, si vide presto assegna¬ to ad un altro reparto: non quello d'una smaccata reazione conservatrice, ma nemmeno quello dell'avanguardia, che di 11 a poco sarebbe venuta a sostituire l'invecchiata « musica moderna » nella prima fila del progresso. E divenne il più autorevole esponente della | terza forza: non uno straussiano né un pucciniano (sebbene non ignorasse né il bavarese né l'italiano e ne facesse occasionalmente buon prò), ma nemmeno, mai, un dodecafonico, anche se non disdegnasse a volte — curioso com'era di esperienze e sensazioni nuove — di sporgersi sul pericoloso abisso dell'atonalità, raggiunta attraverso gli intricati e insidiosi sentieri della modalità e della cosi detta tonalità allargata. La fortuna che aveva assistito il suo coup d'essai parve allontanarsi, e per raggiungere un successo pari a quello di Peter Grimes (e un risultato artistico superiore) si dovette venire al tenebroso e inquietante Giro di vite, del 1954. Le opere intermedie: Lucrezia (ripresa quest'anno in due diverse esecuzioni italiane, con un favore che l'opera non s'era sognata di riscuotere trent'anni fa), Albert Herring, Willy Budd, rappresentata anche in Italia, e la celebrativa Gloriarla (per l'incoronazione della regina Elisabetta), sostanzialmente non ebbero successo. Ne ebbero, invece, e superiore ai loro meriti, i piccoli atti unici da eseguire con mezzi ridotti in chiese e altre sedi di fortuna, come il Noye's Fludd, del 1958, che forse suggerì The Flood a Strawinsky, ma ne fu schiacciato, il Curlew River (1964), The burning fiery jurnace (1966), The prodigai so» (1968). Occhieggiando da una parte al miste¬ ro medioevale e dall'altra al No giapponese, questi garbati lavoretti tradivano il pericolo più probabile per l'arte di Britten: quello di un'eleganza un po' leziosa, di un aggiornamento mondano alle mode culturali. Invece Morte a Venezia (1973) fu di nuovo un grosso e serio impegno, forse non apprezzato secondo il suo merito per via di qualche soluzione teatrale e scenica poco felice. Impegno in quella che fu sempre la via maestra nella musica di Britten: l'approfondimento delle risorse espressive della voce in unione con le risorse foniche e semantiche d'un testo parlato in inglese o in altre lingue (francese, latino, italiano), risorse da lui esplorate in stretta comunione d'intenti artistici col tenore Peter Pears, suo interprete d'elezione, e nello studio di tutti i. grandi che in quel campo hanno seminato, da Monteverdi a Purcell, da Verdi a Puccini, da Wagner a Debussy, a Schonberg e Berg. Un merito va riconosciuto al musicista: pur essendosi schierato piuttosto dalla parte del neoclassicismo strawinskyano che da quella dell'espressionismo viennese, Britten, in fondo, non ha quasi mai praticato quell'esercizio prediletto del neoclassicismo che era la musica al quadrato, cioè il rifacimento di stili del passato, la parodia. Anche quando prendeva Purcell a modello dello stile « sublime » per i grandi monologhi di Peter Grimes (« Ora l'Orsa e le Pleiadi »), lo scopo era sempre quello di trarne alimento per un linguaggio nuovo, di oggi; mai di scimmiottare l'antico facendo leva maliziosamente sul cosiddetto dislivello storico. E all'uomo nessuno potrà mai negare d'essere stato una delle figure più civili apparse nella musica di questo secolo. Non gli si conosce alcuna partecipazione a risse polemiche. Comprendeva con superiore intelligenza storica le ragioni dei musicisti diversi da lui, e conservò sempre una curiosità schietta, inesausta, per il loro operare. La curiosità disinteressata d'uno storico, d'un uomo di cultura: non la curiosità del compositore che nel lavoro degli altri vuol solo vedere se per caso c'è qualcosa che gli possa servire. Non si sbracciava in proclamazioni di fede, e forse il suo approccio ai temi religiosi, nei lavoretti larvatamente teatrali di cui s'è detto, può prestare il fianco a un sospetto di estetismo. Non impose alla sua arte le assise dell'impegno politico. Però il War Requiem (1962), probabilmente il suo capolavoro fuori del teatro, non è l'oDera di un tepido né di un indifferente. Massimo Mila

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