La strage di Peteano rimarrà un mistero? di Piero Cerati

La strage di Peteano rimarrà un mistero? Dopo la sentenza in appello a Trieste La strage di Peteano rimarrà un mistero? Trieste, 3 dicembre. Il processo per la strage di Peteano non è ancora giunto alla conclusione: dopo la sentenza di questa notte, i difensori ricorreranno in Cassazione. La corte d'assise d'appello, infatti, ha confermato l'assoluzione « per insufficienza di prove » (già emessa in primo grado) per gli imputati Romano Resen, Furio Larocca, Gianni Mezzorana e Giorgio Budicin, per i quali il p. m. aveva chiesto l'ergastolo. Per gli altri tre imputati (Enzo Railin e Maria Mezzorana, accusati di strage, e Anna Maria Scopazzi, accusata di favoreggiamento) la Corte ha pronunciato l'assoluzione con formula piena. La sera del 31 maggio 1972 una telefonata anonima giunge ai carabinieri di Gorizia. La voce, in dialetto della Bassa friulana, dice: «C'è una 500 vicino alla ferrovia, tra Poggio Terza Armata e Savogna; ha due buchi nel parabrezza». Lei chi è?, domanda il carabiniere di servizio. «E no, no, non mi interessa, perché quele robe lì, sa com'è, meglio stare un po' attenti». E lo sconosciuto riattacca. L'auto viene rintracciata da una pattuglia. Giungono sul posto il tenente Renato Tagliari, con il brigadiere Antonio Ferraro e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni. Da Gorizia arriva un'altra «gazzella». Ormai vi sono parecchi uomini attorno alla 500. Tagliari decide di ispezionare il cofano, tira la levetta: una fiammata, uno scoppio, l'auto vola in pezzi. La leva ha fatto esplodere una bomba. Ferraro, Poveromo, Dongiovanni sono dilaniati; Tagliari rimane gravemente ferito. «Perché quele robe lì, sa com'è, meglio stare un po' attenti»; l'anonimo aveva voluto mettere in guardia gli inquirenti? La località dove avviene la strage si chiama Peteano di Sagrado, un nome sconosciuto che diventerà tristemente famoso. A dirigere le indagini giunge da Udine Dino Mingarelli, allora colonnello dei carabinieri, poi promosso generale. Il 21 marzo 1973, l'ufficiale conclude l'inchiesta, dice di aver arrestato sei componenti della malavita di Gorizia sotto l'accusa di strage; movente: la vendetta; hanno usato esplosivo «T 4» comperato in Svizzera. In carcere finiscono Giorgio Budicin, Romano Resen, Furio Larocca, i fratelli Gianni e Maria Mezzorana, Enzo Badin. Pochi giorni dopo viene denunciata per favoreggiamento Annamaria Scopazzi, amica di Resen. C'è anche un superteste: Walter Di Biaggio, già in prigione per altri reati. Mingarelli spiega di aver seguito la «pista rossa», quella «nera», poi quella della malavita, che gli ha consentito di chiudere il caso. Il colonnello era giunto a Udine da Milano, dove era stato capo di stato maggiore della divisione Pastrengo e dove fu coinvolto nello scandalo Sifar. Sul «Piano Solo» (tentativo di golpe nel 1964) fu interrogato dai superiori, dai magistrati e dai parlamentari della commissione d'inchiesta. Il suo nome venne accostato a quello di De Lorenzo, poi la «tempesta» passò, e Mingarelli fu inviato al comando di Udine. La magistratura rinvia a giudizio i sette accusati, pubblico ministero è Bruno Pascoli. Svolgerà il medesimo ruolo al processo di primo grado in corte d'assise. L'imputazione è questa: Resen è il «cervello» dell'attentato, che si è preparato un alibi perché al momento della strage è lontano, imbarcato come marittimo; è lui che si è recato in Svizzera con un camion a prendere l'esplosivo. Chi prepara l'ordigno è Enzo Badin, che ha frequentato i corsi di perito elettrotecnico. L'istigatrice è Maria Mezzorana. I «balordi» capaci di tutto sono Budicin, Larocca, Mezzorana. Di Biaggio è il giovane «pentito» che rivela tutto (potrebbe essere chiamato come correo, ma deve testimoniare per cui non viene arrestato). Il «complotto» della malavita sembra troppo perfetto: l'inchiesta giudiziaria non ha aggiunto nulla all'architettura di Mingarelli e i capi d'imputazione cominciano a fare acqua. Malavita? Gli accusati sono in realtà «balordi» di provincia, se proprio si vuol dare loro un'etichetta molto forzata; c'è un'enorme sproporzione tra il movente (portato dagli inquirenti) e il fatto (una strage compiuta per vendicarsi di piccole multe, di perquisizioni, null'altro). Chi ha telefonato? Prima si accusa Mezzorana, poi si scopre che non ha la parola facile, e allora una perizia di parte aceusa Badin. Chi ha rubato la 500? In tre, davanti alla «Frasca del brolo», un'osteria di Gorizia. Dov'è stata nascosta l'auto prima della strage? In una legnaia. In quell'andare e venire, qualcuno ha visto gli imputati? Nessuno. L'unico ad accusare è Walter Di Biaggio. che ha periodici incontri con il capitano dei carabinieri Chirico, braccio de¬ u stro di Mingarelli (l'ufficiale gli consegna anche dei soldi: «Per aiutarlo, per le sigarette, una pura opera d'umanità», dirà al processo). Attorno ai protagonisti ruota poi una serie di comprimari, ma le prove, i dati concreti non esistono. Gli imputati scelgono come difensori gli avvocati Livio Bernot, Nereo Battello, Umberto De Luca, Roberto Maniacco, Carlo Pedroni: non formano collegio, sono di diversa estrazione politica (Battello comunista, Bernot democristiano, Pedroni missino). Il processo comincia il 1° aprile 1974. Durante le udienze avviene la svolta: le accuse agli imputati sono labili, cadono; i testi non provano nulla (vengono in luce solo vecchi rancori personali); i difensori accusano gli inquirenti: portano documenti, confutano gli indizi. La parte civile è agguerritissima f«Non per sete di vendetta, ma per giustizia»;. Walter Di Biaggio, superteste, cade in contraddizioni; il perito fonico che accusa per la telefonata Badin (aspirante giornalista: il fatto di recarsi in caserma per avere notizie sulla strage lo aveva reso sospetto, fino ad incastrarlo nel gioco del massacro) rivela troppe incertezze; il «T4» in Svizzera non esiste e i carabinieri non hanno mai preso accordi (come invece sostengono) con le autorità elvetiche per indagini. Nel Veneto esistono «cellule» di estrema destra molto forti, con diramazioni nel Friuli-Venezia Giulia: Peteano è un episodio compreso tra attentati (uno anche contro la villa d'un missino), scoperte di esplosivo, intidimazioni, la morte di Feltrinelli e di Calabresi, u tentato dirottamendo d'un Fokker a Ronchi dei Legionari, dove Ivano Boccaccio, neofascista, muore colpito dalla polizia, e Carlo Cicuttini, segretario missino di San Giovanni al Natisone, scompare. Giovanni Ventura (strage di Piazza Fontana) parla di «cellule» nazifasciste a Udine (avrebbe detto che erano in contatto con Franco Freda, Unch'egli accusato per Piazza Fontana), ma la pista «nera» è rimasta in ombra, trascurata troppo presto (perché?) dagli inquirenti. Il processo sì conclude il 7 giugno 1974 con un'assoluzione generale per insufficienza di prove. Ricorrono tutti. L'«affare» Peteano finisce però in Cassazione e in Parlamento: gli inquirenti e alcuni magistrati sono messi sott'accusa dal principale imputato e da alcuni difensori. Si parla di omissione di atti d'ufficio, falso, subornazione di testi. La magistratura veneziana è incaricata dalla Cassazione di accertare se le accuse sono fondate: archivia in parte le denunce, ma invia avvisi giudiziari al procuratore di Gorizia Pascoli (p.m. al primo processo), agli ufficiali Mingarelli, Farro, Chirico responsabili delle indagini. Il primo dicembre comincia il processo d'appello per la strage. Crollano le ultime «prove»: dai registri doganali non risulta che Resen sia passato in camion oltre la frontiera svizzera (tra il '70 e il '71); i funzionari di polizia elvetici confermano che mai è esistito nella Confederazione esplosivo di tipo T4 (usato a Peteano) come sostiene il rapporto dei carabinieri (Farro e Chirico); la corte d'assise d'appello si reca in Svizze¬ ra per accertare se è vero che i carabinieri si sono messi ufficialmente in contatto con la polizia svizzera per un'inchiesta sull'esplosivo; la risposta è: «Mai presi contatti con gli inquirenti italiani». La perizia fornita sulla telefonata scagiona Badini. I pilastri dell'accula cadono. Il superteste Di Biai/gio è accusato di calunnia e autocalunnia: ha sostenuto (e si è fatto processare e condannare per questo) di essersi recato egli stesso in Svizzera con Resen a prendere l'esplosivo. Ma il viaggio, ora è provato, non è mai avvenuto. Walter Di Biaggio per costruire il castello d'accuse si sarebbe fatto imbeccare giorno per giorno dagli inquirenti: per quale premio forse non lo sapremo mUi. Quattro anni di inutili indagini per arrivare al punto dì partenza, a quel 31 maggio 1972 quando tre giovani carabinieri pagarono con la vita la scelleratezza di qualcuno rimasto nell'ombra. Piero Cerati