Tornando sul raid di Entebbe di Andrea Barbato

Tornando sul raid di Entebbe Nomi e Cognomi di Andrea Barbato Tornando sul raid di Entebbe Sette case cinematografiche stanno producendo contemporaneamente altrettanti film sull'operazione lampo delle unità israeliane che, in una domenica del luglio scorso, liberarono i passeggeri del volo Air France 139, tenuti in ostaggio da dirottatori nell'aeroporto della capitale dell'Uganda. Uno di questi film uscirà in tutto il mondo addirittura nei prossimi giorni: un vero record, un raid cinematografico. L'arte tende sempre più ad identificarsi con la realtà, a riprodurla mentre accade. Un buon suggerimento produttivo potrebbe essere quello di far viaggiare Burt Lancuster o Kirk Douglas direttamente con i commandos, nell'azione autentica. Comunque, è significativo che la comunità ebraico-cinematografica americana, che è la più potente e intelligente del mondo, si sia accorta delle imprese israeliane solo in questo caso, in cui la comunità arabo-petrolifera non è coinvolta se non di striscio. Non credo che l'unico motivo sìa il fatto che le comparse di colore sono più facili da trovare, a Hollywood. E' augurabile che il film su Entebbe, e gli altri simili che lo seguiranno, possano tutti circolare liberamente davanti alle platee italiane, senza suscitare boicottaggi né blocchi — anche simbolici — del lavoro. Molti ricorderanno cosa accadde in ottobre, per l'uscita del libro Novanta minuti ad Entebbe che segnava un primato di velocità giornalistica ed editoriale nel ricostruire l'operazione militare. Semmai, dopo aver appassionatamente condannato ogni forma di limitazione della libertà d'espressione, resta da chiedersi perché quel libro di William Stevenson sia stato così poco recensito e discusso «dopo» l'uscita. E' segno che i simboli contano più dei fatti, i gestì esemplari più dei contenuti. Allo stesso modo, il possesso temporaneo di un'insalatiera di latta rischia dì valere di più dei campi di tortura di Pinochet, per alcuni. La lettura del libro di Stevenson conforta chi crede che non c'è alcun biso- gno di temere la presenza delle idee altrui, se si è convinti di poterle discutere. C'è da notare, semmai, che il libro non rende un buon servizio ad Israele. Del suo dramma, restituisce un ritratto tanto vivace quanto superficiale, e tutto sommato falso. Nell'Italia della sociologia e del moralismo domenicale, nell'Italia trasformata in una fabbrica di tavole rotonde, questo sarebbe stato un concreto argomento di dibattito: non quello dell'astratto diritto di protesta di un gruppo di persone. I problemi autentici diventano fumo e grida, esercitazione semantica, seminario. Avremmo dovuto discutere, in presenza del libro, se è vero (come a me pare) che Stevenson abbia raccolto, intorno all'operazione di Entebbe, tutti gli elementi di un dramma manicheo, bianco e nero. O avremmo potuto accapigliarci per decidere se sia giusto concludere che la cronaca vivacissima del raid finisce per alimentare complessi di superiorità, il senso dell'unicità e dell'isolamento di Israele. Quest'epopea degli Hercules attraverso l'Africa rende melodrammatico e incredibile anche quanto c'è di autentico, e cioè la bravura tecnica dell'esercito di Gerusalemme o l'angosciosa prigionia degli ostaggi innocenti. A me sembra che Stevenson spacchi il mondo in due. Da una parte, personaggi lucidi e coraggiosi (Bar Lev, Peres, i militari protagonisti del volo su Entebbe), dall'altra le marionette, i neri, i tedeschi, il perfido Hadad, il pagliaccesco Amin. Da quest'urto semplificato, la verità ne esce contrita, i fatti si deformano. Il libro finisce persino per indurre un po' di immeritata simpatia per il presidente ugandese e per i suoi uomini, così sorpresi, grotteschi e inefficienti. Tutti gli elementi del racconto sono quelli del mediocre film d'avventure, e non stupisce perciò l'interesse del cinema per la vicenda. Non si discute l'episodio in sé, ma il modo di raccontarlo, e l'interpretazione che se ne fornisce. Chi conosce Israele non può che nutrire rispetto per il suo dramma e il suo coraggio. Ma chi ha visto questa Nazione soffrire e dibattersi nella guerra del Kippur, non riconosce il ritratto spavaldo che ne dipinge Stevenson. Lo «spirito di Masada», cioè la sconfitta eroica, è in declino: ma la sciagura di Maalot ha dimostrato che combattere non è necessariamente l'unica via, né sempre la migliore. L'efficienza bellica non ha soffocato il dibattito interno dì questa nazione autocritica, che s'interroga sul proprio ruolo, anche culturale, nel mondo. Israele è un grande Paese per motivi diversi dalle sue glorie militari, basta seguire Saul Bellow laggiù per capirlo. E il dramma palestinese non è un'operazione di polizia, anche se la vita degli ostaggi è il bene più prezioso da salvare. L'ebreo dunque non dovrebbe difendersi, non dovrebbe contrattaccare? Credo che l'intelligenza ebraica abbia già abbattuto questo falso interrogativo. La ragione o il torto non sì possono affidare al successo di un assalto notturno ai capannoni di un aeroporto, la vera coscienza ebraica è quella che in questi giorni chiede che la giustizia non s'arresti neppure dinanzi all'agonia di Kappler. Perciò mi sembra che Israele non meriti le false difese che gli vengono dai narratori d'avventure.