Il mistero Villon di Giovanni Bogliolo
Il mistero Villon Tra alta maestria e poesia Il mistero Villon Francois Villon: « Il Testamento e la Ballata degli impiccati », Intr. di Ezra Pound, trad. di Sara Rina Virgillito, Ed. Rusconi, pag. 247, L. 5500. Ribalderia e generosità, dissolutezza e senso tragico della vita, beffardo cinismo e commossa religiosità: gli stridenti, inconciliabili contrasti che tenacemente si fondono nella poesia di Villon e ne determinano i caratteristici sbalzi dal registro burlesco a quello elegiaco, continuano a distanza di secoli ad affascinare i lettori e a tentare i critici. Per una lettura « ingenua » che questi contrasti vorrebbe romanticamente accreditare sul conto della biograna « maledetta » del povre escholier, tante letture « eulte » cercano invece di scioglierli storicamente e filologicamente in un gioco di congetture sempre più ardite e contraddittorie. Ma il mistero di Villon resiste intatto, e quelle che ad alcuni possono sembrare confortanti approssimazioni alla verità della sua vita e della sua poesia, per altri restano « disavventure postume », gratuite superfetazioni. In verità mancano gli strumenti per fare piena luce sul grado di originalità della sua poesia: si sa che si muove tutta quanta nel preciso ambito di una struttura retorica consolidata — quella del « testamento » e del « congé » — ma non si potrà mai stabilire, per mancanza di efficaci termini di confronto, se la forza di verità che Villon vi imprime sia così prepotentemente nuova e personale quale a noi appare. E gli altri topoi medievali — il compianto AeW'Vbi sunt e il tema della danza macabra — hanno per noi una suggestione che in parte è certamente debitrice dell'incolmabile scarto temporale. La finzione retorica del testamento, col suo continuo oscillare tra il tragico della morte incombente e il burlesco dei lasciti e delle beffe, può essere d'altronde soltanto un efficace pretesto per cucire in una blanda unità strutturale i vari e dissonanti frammenti di un'opera concepita in epoche diverse, una sorta di canzoniere che, invece dell'amore, abbia la morte — invocata, derisa, vilipesa, blandita, esorcizzata — come motivo unificatore. La lingua poi, anche quando non è il gergo furbesco dei coquillards, è così ostentatamente contesta di anfibologie e allusioni che è impresa disperante per un moderno tentarne una completa decifrazione: e così la Parigi violenta e scanzonata dei ladri e delle prostitute, dei goliardi e dei prosseneti che vediamo soltanto attraverso la lente deformante della forte caratterizzazione che ne fa il poeta. Ci si accorge cioè di essere di fronte ad un'opera di alta maestria e di ancor più alta poesia, ma non si riesce a stabilire fino a che livello scenda la spessa griglia delle convenzioni; malgrado ciò, tanta è la forza di sincerità che comunque ne filtra, tanto preponderante è l'accento del vissuto, che non si resiste alla tentazione di personalizzare al massimo le aperte confessioni come le ambigue allusioni, gli slanci di fede come le compiaciute professioni di peccato. Col rischio di tradurre in immediata realtà storica e biografica un nucleo espressivo molto più mediato e composito; e col rischio ancora maggiore di privilegiare sentimentalmente una delle inconciliabili sfaccettature del « personaggio », solo perché appare più credibile o più patetico l'enfant perdu oppure il peccatore pentito, lo spavaldo gaudente o la vittima trepida d'amor filiale. Ha detto Giovanni Macchia che dai contrasti della sua natura e del suo mondo, «nessun critico oggi, con ì messi di cui dispone, riuscirà a liberare » Francois Villon, ma c'è un'altra liberazione che è possibile e raccomandabile quando ci si accinge a leggere la sua opera: quella dalle interpretazioni prefabbricate, soprattutto quando sono troppo capziose e onnicomprensive. Ci si deve rassegnare insomma ad affrontare il Testamento con tutte le limitazioni che la povertà degli strumenti storiografici e filologici impone e con la convinzione che ogni appianamento delle contraddizioni sarebbe un impoverimento di quella poesia. A queste difficoltà la nuova edizione del Testamento che Rusconi presenta come strenna cerca di rispondere lasciando la filologia nel limbo della definizione del testo (che è quello classico di Longnon - Foulet), limitando l'apparato delle note all'obbligo di «schiarire il testo dove è parso necessario e suggerire l'ambiente storico nel quale questa poesia nasce» e affidando il compito dell'introdu zione a un vecchio e anche troppo divagante saggio di Ezra Pound. La traduzione della Virgillito, consapevole di essere «come ogni altra e a dispetto delle buone intenzioni, anacronistica e arbitraria)), risulta ragionevolmente fedele alla varietà di umori e di toni dell'opera, senza mai pretendere di salvare l'integrità e la complessità delle polivalenze. Alterna momenti felici (le Ballate, per esempio) ad altri più stanchi e banali, e la scelta — più obbligata che «congeniale» — dell'endecasillabo dilata e diluisce un po' troppo il ritmo incalzante dell'ottonario francese. Ma la risorsa del testo a fronte consente tutti gli opportuni raffronti e propizia le infinite suggestioni che la poesia di Villon sa autonomamente dare. Giovanni Bogliolo
Luoghi citati: Parigi
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