Marx pluralista?

Marx pluralista? LE RISPOSTE DI BOBBIO Marx pluralista? Com'era prevedibile, il di-] battito si è svolto principalmente lungo il tema « pluralismo e socialismo »: un tema a molte facce che conviene tener separate. Sono stati toccati soprattutto quattro punti, ciascuno dei quali meriterebbe una trattazione più esauriente di quella che posso fare in queste note: 1) pluralismo e marxismo; 2) pluralismo e teoria (e pratica) dei partiti comunisti; 3) pluralismo e compromesso storico; 4) pluralismo e futura società socialista. ★ * Sul primo punto rinvio alle osservazioni fatte da Pietro Rossi nell'articolo E' possibile conciliare il pluralismo con Marx? (« Il giorno », 19 settembre 1976), che condivido pienamente. Pluralismo e marxismo divergono, secondo Rossi, sia rispetto alla concezione generale della società che per il primo « è costituita da una molteplicità di gruppi i quali sono portatori di interessi differenti ma non necessariamente incompatibili », mentre per il secondo è costituita da classi antagonistiche; sia rispetto alla concezione del partito, la cui funzione è per il primo rappresentativa e mediatrice, per il secondo rappresentativa ma non altrettanto mediatrice in quanto rappresenta gl'interessi permanenti di una sola classe sociale; sia rispetto alla filosofia della storia, che, secondo il marxismo, mette capo a una società senza classi, cioè ha un fine prestabilito e, nei riguardi del corso storico sin qui compiuto, conclusivo. Da queste osservazioni che mi paiono ineccepibili deriva che non si può annettere il pluralismo nel suo significato specifico al marxismo e a maggior ragione al leninismo senza compiere un'opera di revisione della dottrina cosi com'è stata sinora tramandata e canonizzata, se non correndo il rischio di essere accusati dagli ortodossi di « revisionismo ». Si osservi come un « ismo » non può essere corretto o « riveduto » se non contrapponendogli un altro « ismo ». Per chi invece consideri Marx come uno scienziato, la revisione di questo o quel risultato delle sue ricerche è un fatto naturale, non catastrofico: la scienza procede per continue revisioni senza mai dar luogo alla contrapposizione frontale fra ortodossi e revisionisti: anzi, colui che « rivede » è considerato generalmente non un traditore ma un benemerito. ★ ★ Rispetto al rapporto fra pluralismo e teoria (e pratica) dei partiti comunisti, non ignoro che in questi ultimi anni nell'ambito della stessa scienza politica americana, che aveva costruito la categoria del totalitarismo in funzione apparentemente antifascista ma di fatto anticomunista, sono stati fatti alcuni tentativi di dare un'interpretazione pluralistica del nuovo corso dello Stato sovietico (si vedano gli articoli contenuti nel fascicolo dell'autunno 1975 degli Studies in comparative communism). Non ignoro neppure che la più grande inchiesta-analisi sull'Unione Sovietica del periodo staliniano, scritta da-occidentali e tradotta in italiano con tutti gli onori nel 1950 (parlo de II comunismo sovietico: una nuova civiltà di Beatrice e Sidney Webb) era un tentativo (temerario a dire il vero) di presentare la società sovietica come una « democrazia multiforme », ovvero « un nuovo tipo di organizzazione sociale, nella quale gl'individui medesimi che ne fanno parte, nella loro triplice qualità di cittadini, produttori e consumatori, si uniscono per realizzare una vita migliore » (II, p. 708). Ma il contrasto di fondo, indipendentemente dalle parole usate, fra i sistemi politici dei Paesi comunisti e i Paesi di democrazia rappresentativa, per la cui interpretazione è stata foggiata la categoria del pluralismo, rimane. Nonostante gli sforzi degli attuali liberals americani, e dei due illustri fabiani di quarant'anni fa, sono gli stessi scrittori e politici sovietici che considererebbero l'interpretazione pluralistica del loro sistema come un travestimento, se non proprio come un'aberrazione. Ripesco nei miei ricordi un episodio che dovrebbe mettere ai neo-pluralisti del comunismo occidentale almeno una pulce nell'orecchio: quando un gruppo di intellettuali ungheresi andati in esilio dopo la rivoluzione fallita del 1956 fondarono a Bruxelles una rivista di forte polemica antisovietica, intitolata Etudes, sapete quale sottotitolo vi apposero dopo qualche anno? Revue du socialisme pluraliste'. Nell'attuale dibattito peraltro ogni riferimento deve es¬ sere fatto, per essere di qualche utilità, al partito comunista italiano. Rispetto al quale sono di fondamentale importanza le dichiarazioni fatte da Pietro Ingrao (Il pluralismo, 7 ottobre), e quelle successive di Ugo La Malfa (Pluralismo e socialismo, 9 ottobre), che citandole sostiene non doversi fare il processo alle intenzioni. Nell'articolo di Ingrao vi sono almeno tre punti che non si possono passare sotto silenzio: il richiamo alla Costituzione e alla indubbia concezione pluralistica cui essa è ispirata; l'affermazione di fatto che rispetto alla tradizione marxistica « non siamo stati fermi » e quella di principio « siamo laici » perché « non crediamo che esistano carismi né per noi né per gli altri»; infine la dichiarazione che nei partiti politici moderni resta un'ambiguità perché, nonostante la spinta alla socializzazione del potere che essi esprimono, rivelano « un'inclinazione ad un ruolo totalizzante che finisce per trasformarsi in delega ». Ha ragione La Malfa di dire che, quando non si consideri strumentale questa posizione di Ingrao, essa rappresenta « un salto enorme » rispetto al pensiero tradizionale dei partiti comunisti. Zaccagnini a sua volta ricorda alcune dichiarazioni di Togliatti relative alla nostra Costituzione. Il salto è davvero « enorme » perché va — o almeno io ritengo che vada — non solo oltre Gramsci (il che lascia intendere lo stesso Ingrao quando dice « e qui non bastano più nemmeno le anticipazioni geniali di Gramsci ») ma anche oltre Togliatti. Il che, per un partito laico, per un partito che non sta fermo, non è uno scandalo: è una necessità. Il partito socialista dal tempo del « fusionismo » di salti ne ha fatti molti (forse anche troppi): ma nessuno lo mette in cróce per questo. ★ * Il tema del rapporto fra pluralismo e compromesso storico è stato l'oggetto principale dell'intervento di Antonio Giolitti (Pluralismo e compromesso », 12 ottobre). Il problema può essere posto con questa domanda: il compromesso storico è una proposta politica pluralistica? Ho già avuto occasione di dire in più occasioni che il compromesso storico, se davvero fosse destinato a essere « storico », finirebbe per bloccare lo sviluppo di una società pluralistica, e che pertanto esso è suggerito dalla preoccupazione per l'emergere degli elementi negativi del pluralismo più che non degli elementi positivi. La Malfa è di diverso parere, e naturalmente anche Ingrao. Contrari, oltre Giolitti, Orlandi e Zanone. Giolitti ritiene si debba prevenire il pericolo della mancanza di alternativa, perché senza alternativa, cioè senza la possibilità di un'opposizione capace di sostituire pacificamente il governo in carica, « si avrebbe un pluralismo sociale ingabbiato in un totalitarismo politico ». Questo argomento mi pare difficilmente superabile. Non ho nulla in contrario, si badi, che mi si venga a dire: in una società che presenta chiari sintomi di disgregazione, come quella italiana, insistere sullo sviluppo del pluralismo anziché sul suo (momentaneo) arresto, è un errore. Mi pare invece pcco convincente che si agiti la bandiera del pluralismo per fare una politica che con tutta la buona volontà di non fare la polemica per la polemica non si può considerare se non antipluralistica in tutti i sensi sinora descritti di questo straziatissimo termine. Al Festival di Napoli mi si è obiettato: « Il fatto che noi (comunisti) non solo non respingiamo ma cerchiamo l'alleanza coi diversi, è la prova che non siamo esclusivisti, che siamo pluralisti ». Rispondo: la prova del pluralismo non è mai la formazione di un nuovo « blocco storico », ma (come ha notato D'Entrèves) la libertà del dissenso, ovvero la condizione riservata a coloro che non fanno parte del blocco. * ★ L'ultimo tema — pluralismo e futura società socialista — è quello su cui, se dovessi attenermi agli interventi, non avrei niente da dire. La Malfa l'ha posto in forma di domanda, ma nessuno in forma di risposta. La ragione per cui non è stata data una chiara risposta a questa domanda sta nel fatto che una società che sia insieme interamente socialista e democratica, sinora nessuno l'ha mai vista. Una società che sia insieme interamente socialista e democratica appartiene alla categoria degli eventi desiderabili. Ma non tutti gli eventi desiderabili sono possibili. Siccome il pluralismo è entrato ormai a far parte del nostro concetto di democrazia, sappiamo soltanto che una società socialista per essere democratica dovrà essere pluralista. Ma non sappiamo come. Per definire la democrazia occorrono non una ma due negazioni: la negazione del potere autocratico in cui consiste la partecipazione, e la negazione del potere monocratico in cui consiste il pluralismo. Si può benissimo pensare a una società democratica non pluralistica (la repubblica di Rousseau); cosi come sono esistite società pluralistiche (ad esempio, la società feudale) non democratiche. Una società socialista, per essere democratica, dovrebbe essere non autocratica e non monocratica. Gli sforzi del pensiero socialista e democratico sono stati diretti verso il primo obiettivo — allargamento della partecipazione dal potere politico strettamente inteso al potere economico —, non ancora verso il secondo. Ci sarebbe da rallegrarsi se questo dibattito fosse servito, se non altro, a individuare un problema. Norberto Bobbio Leibniz: « La penso monade; mero plurade » ma per adeguarmi la chia- (Disegno di Erica)

Luoghi citati: Bruxelles, Napoli, Unione Sovietica