VITA DI FELICE CAVALLOTTI di Carlo Casalegno

VITA DI FELICE CAVALLOTTI VITA DI FELICE CAVALLOTTI Il bardo radicale Alessandro Galante Garrone ha mantenuto la promessa fatta un decennio fa, e pubblicato l'opera che attendevano da lui non soltanto gli storici di mestiere: la prima biografia esauriente, per certi aspetti definitiva, di Felice Cavallotti (editore Utet, 736 pagine, 18.000 lire): uno tra i protagonisti del post-Risorgimento nominati più spesso e meno conosciuti. Molti avevano scritto sul personaggio Cavallotti, sovente in saggi frammentari; più numerose assai le ricerche sulla sua attività di parlamentare e di leader del radicalismo, dal Morandi allo Spadolini e al Colapietra. Ma una biografia rigorosa, compiuta e moderna ancora mancava: Galante Garrone l'ha costruita con vastissime ricerche, su documenti in gran parte inediti, esplorando per anni gli archivi della Fondazione Feltrinelli e di musei, biblioteche, case private. Alcuni suoi giudizi potranno essere discussi: ma partendo dai dati ch'egli ha raccolto, dal ritratto che ha tracciato. Tre motivi predisponevano Galante Garrone ad essere il biografo di Cavallotti. Anzitutto una conoscenza approfondita del movimento radicale, studiato a lungo, discusso in corsi universitari, illustrato tre anni fa nel saggio I radicali in Italia. Poi un intreccio d'interesse, curiosità, simpatia, ammirazione per il personaggio Cavallotti: garibaldino e bohémien, parlamentare accorto e poeta romantico, « bardo della democrazia » e grande giornalista, anche nelle intemperanze animato da una rigorosa e pugnare coscienza morale. E infine, elemento decisivo, la formazione politica dello storico, cresciuto alla scuola di « Giustizia e libertà », militante del partito d'azione, e quindi erede in qualche modo dell'ideologia e dell'etica del radicalismo cavallottiano. Uno studioso liberale, cattolico o marxista difficilmente avrebbe dedicato anni di ricerca, e diremmo d'appassionata convivenza, a Felice Cavallotti: non a caso la bibliografia cavallottiana è abbastanza esigua. ★ * Merita consacrare tanto lavoro e tante pagine al Cavallotti? L'autore è storico troppo serio ed equilibrato per sopravalutarlo come protagonista della moderna storia d'Italia; ne misura i limiti come politico e come scrittore, non lo idealizza, non ha reticenze nei giudizi critici. Ma Galante Garrone è ben consapevole, al tempo stesso, che Felice Cavallotti occupa un posto tuttoparticolare nella galleria di ritratti del secondo Ottocento. Sulla nostra scena politica, abbastanza grigia, egli appare come un personaggio anomalo e straordinario, intenso, drammatico, di forti contrasti e di fortissime passioni. Anche pittoresco, potremmo aggiungere, se la definizione non contenesse qualcosa d'ingiustamente spregiativo. Nato in una famiglia della borghesia impiegatizia milanese, Cavallotti fuggì di casa a diciott'anni per combattere con i Mille; in Sicilia incominciò a scrivere versi (brutti) e articoli. A vent'anni alternava il lavoro di redattore con l'insegnamento privato del latino e del tedesco; a ventidue anni si batté, nel primo dei suoi trentasei duelli, con un giornalista conservatore; a ventiquattro fondò il pugnace Gazzettino Rosa. Più garibaldino che mazziniano, non risparmiò nelle polemiche il governo, i moderati e la Corona; fu volontario nella guerra del '66, ebbe in carcere la notizia della breccia di Porta Pia; tre anni dopo era deputato, e scrittore già famoso di poesia e di teatro. Per altri venticinque anni di vorticosa attività alternò un intenso lavoro di giornalista e un'assidua presenza parlamentare; scrisse drammi, versi impegnati e giocosi, discorsi, programmi di partito; condusse memorabili battaglie contro Depretis e Crispi, la tassa sul macinato e la guerra d'Africa, la Triplice e le repressioni poliziesche, il trasformismo e lo scandalo della Banca Roma na. Collaborò e litigò con il Carducci; fu vicino agli « scapigliati » e poi avversario; guidò una spedizione a Napoli per soccorrere i colerosi, alternò ai drammi storici la commedia di costume e la satira politica in versi e in prosa, conobbe amori tempestosi. Morì in duello nel 1898, poco prima che Bava Beccaris cannoneggiasse i ribelli di Milano: una tragedia che rallegrò i conservatori e la regina Margherita, e gettò nella costernazione la sinistra, nel lutto i suoi amici-avversari del nascente socialismo. Carducci lo definì « forte e prepotente, appassionato e violento », e anche « l'ultimo dei romantici ». Fu un polemista rabbioso, rissoso, talora ingiusto, ma d'una feroce intransigenza morale. Scrisse parole spietate contro il matrimonio e fu un padre tenerissimo. Conduceva le battaglie politiche e letterarie con esuberanza passionale, fino al duello; ma alternava le guasconate agli scherzi, e con gli amici era un ridente scapigliato. Certi suoi allegri versi dialettali sono tra le non molte cose che ancora si leggano con gusto, mentre tanta parte della sua opera, acclamata in una breve stagione di gloria, è di scoraggiante lettura o appare terribilmente « datata ». Le amplissime citazioni che ne ha dato Galante Garrone non vogliono essere la riscoperta del drammaturgo e del poeta, ma documenti che illuminano l'uomo e il suo tempo. E in questo senso non soltanto si giustificano, ma sono necessarie: così come le minuziose informazioni biografiche, gli stralci di decine d'articoli, i passi abbondanti dei discorsi, i tanti ragguagli sulla società politica e letteraria. Galante Garrone è tra i pochi autori che abbiano rispettato fino in fondo il programma della collana in cui è uscito il Cavallotti, e che s'intitola « Vita sociale della nuova Italia ». Attorno al personaggio, egli ha ricostruito l'ambiente, la società, il costume del secondo Ottocento; e spesso i più modesti documenti personali sono i più preziosi. La fuga con Garibaldi del diciottenne Felice e dei suoi amici, rivissuta attraverso lettere e cartoline alle famiglie, è un piccolo capolavoro. Scrittore di breve fama, Cavallotti è un vinto anche in politica? Appare indubbio che il movimento radicale fu sempre una forza minoritaria, efficace ma non determinante, e che incominciò a declinare con la morte di Cavallotti: parzialmente svuotata nel suo programma di riformismo sociale dall'ascesa del socialismo, parzialmente assorbita dal pragmatismo giolittiano nell'impegno di trasformazione democratica dello Stato. Non sarebbe da storici chiedersi che cosa avrebbe potuto fare un'alleanza non impossibile tra Giolitti e Cavallotti all'inizio di questo secolo. Ma lo storico può affermare con sicurezza che la lunga battaglia radicale esercitò un influsso determinante nel preparare la svolta dalla reazione crispina, o umbertina, al costruttivo liberalismo giolittiano; e che l'eredità radicale, sopravvissuta al declino del partito, continuò a nutrire la democrazia italiana. Né ha perduto di attualità: se ne avverte l'eco diretta in qualche documento del pri e del psi. Rileggiamo il testo del Patto di Roma, elaborato dal Cavallotti (dopo aspre controversie con gli amici) come programma radicale per il 1890. Dalle autonomie locali alla « partecipazione », dall'intransigente tutela dello Stato laico al rigore dell'imposta progressiva, dalla riforma dei codici e delle carceri al sistema previdenziale, dai diritti di libertà alle difese contro il dispotismo burocratico, è tutto un elenco di rivendicazioni che si ripetono, appena aggiornate, nei nostri programmi. E che i radicali di Cavallotti sostenevano senza l'oltranzismo irresponsabile e l'ispirazione anarcoide dei radicali d'oggi. Carlo Casalegno Felice Cavallotti a sinistra e Eugenio TorelliViollier Felice Cavallotti, a sinistra, e Eugenio Torelli-Viollier in una caricatura del « Pipelé » (Milano, 3 agosto 1877)

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