Malraux, l'ultima avventura di Alberto Cavallari

Malraux, l'ultima avventura È MORTO LO SCRITTORE DELLA "CONDIZIONE UMANA Malraux, l'ultima avventura Nel 1972, colpito da paralisi al cervelletto, aveva già "provato a morire" - Prima di "convertirsi" al gollismo, fu testimone delle guerre del secolo: dall'Oriente alla Spagna e alla Resistenza francese - Nella vita e nei libri, un astratto furore in cerca dell'uomo offeso e della sua grandezza tragica (Dal nostro corrispondente) Parigi, 23 novembre. La notizia della morte di Malraux fa pensare, anzitutto, che questo straordinario intellettuale ha lasciato persino una testimonianza della propria estrema esperienza. Infatti, nel novembre 1972, colpito da una paralisi al cervelletto, trasportato d'urgenza alla Salpétrière, aveva già « provato a morire ». Era rimasto in coma per tre settimane, aveva toccato il punto di non ritorno, e — dopo aver visto tante volte in faccia la morte, dopo averla teorizzata come azione, come sacrificio, come scelta néll'v. onore di essere uomini » — aveva navigato in un buio che non aveva scelto, e nel quale non c'era azione. Poi, tre settimane dopo, Malraux, dato per morto, era guarito e « risorto ». Aveva ricominciato a parlare, scrivere, pensare, camminare, il suo personaggio nevrotico e luminoso era rientrato sulla scena intellettuale francese. Aveva quindi fissato in un ultimo libro, « Lazzaro », aggiunto alle « Antimémoires », la meditazione compiuta in ospedale: « Da figlio del secolo che ha fatto propria l'esperienza di Lazzaro uscendo dal secolo, e camminando là dove cessa il tempo ». « Sono morto » scrisse Malraux « senza mai pensare a Dio. Infatti sono un agnostico. Ma sono un agnostico avido di trascendenza, e rifiuto il rifiuto di Dio ». Poi scrisse di non aver mai sentito il problema del trapasso « ma solo il problema metafisico della morte »; e questo perché « l'esperienza di morire comporta molta approssimazione ». Infatti, « chi sopravvive evidentemente non è mai stato morto, e quindi non ha realmente conosciuto la morte ». Tuttavia « nemmeno i morti possono conoscere la morte, dato che nessuno ha mai visto il proprio cadavere », e pertanto Malraux vedeva « non inutile » confidare agli uomini l'ultimo messaggio « nato dall'ultima avventura ». « La morte non genera angoscia » scrisse allora Malraux. « Semmai l'angoscia genera morte, come nel caso dei suicidi. Infatti la speranza è come la respirazione, solo i morti potrebbero accorgersi di averla perduta. Ma i morti non si accorgono di niente, e inoltre l'esperienza della morte è impossibile per un agnostico dato che essa esiste solo se viene pensata attraverso la fede nell'aldilà, nella sopravvivenza, nella reincarnazione. Altrimenti diventa impensabile, e l'impensabile non esiste ». Comunque, concluse Malraux, « io mi sono sentito scivolare verso uno stato d'estasi che non porta a nessuna scoperta. Ho sentito poi come una presenza estranea, una immensa bontà caduta dal firmamento, e mi tornavano a tratti solo ricordi legati alla fraternità nella morte. Rivedevo la guerra, i morti di Madrid, le nuvole di gas tedesco sulla Vistola, i soldati tedeschi che cercavano di salvare i russi dopo averli asfissiati. Rivedevo il terrorista Katov che attende l'esecuzione, e dona la sua fiala di cianuro al campagno che ha paura di morire. Rivedevo me stesso in Spagna donare il mio paracadute a Marechall mentre l'aereo precipitava. Posso dire quindi che la morte riceve solo un senso dalla vita e dalla fraternità che in essa si è cercata ». Ma su che cosa ha testimoniato Malraux? La sua vita è stata quella di un uomo « assetato di portare testimonianza sulla storia » (Picon), deciso a «penetrare nella storia, magari per effrazione» (Lacouture), e non meraviglia che abbia voluto chiuderla con l'esplorazione dell'ultimo territorio destinato all'uomo, là dove comincia l'antistoria. La sua opera è stata poi una «febbrile lotta per trasformare l'esperienza in conoscenza » (Gide) ed è naturale che vi sia stato un ultimo messaggio di fraternità che si riallaccia agli altri messaggi di fraternità cercati nella rivoluzione in Asia, nella guerra di Spagna, nella Liberazione, e che danno sostanza ai suoi grandi capolavori: «Les conquérants» (1928), «La condition humaine » (1934), «L'espoir» (1937) «Lesnoyers de l'Altenburg» (1945). Dopotutto, « Lazzaro » è la conclusione giusta di una vita e di un'opera dove la guerra, la morte, la storia, s'intrecciano senza posa, e dove lo stesso volontarismo dello scrittore si riscatta nella « tragedia di essere uomini, nella fraternità, nella vita stessa, nella lotta dell'uomo per l'uomo, nel rifiuto della vita senza ragioni, percorsa sino ai confini del suicidio ». Biografia e bibliografia di Malraux hanno del resto registrato continuamente questa nervosa e lirica creazione di una « leggenda della fraternità ». Malraux nasce a Parigi nel 1901, si laurea alla scuola di lingue orientali, ed è un intellettuale mondano, raffinato, « farfelu », che nel 1923 sembra destinato a conquistare solo i salotti parigini, nei quali debutta con un libretto surrealista, « Lunes en papier », dove non c'è traccia di ciò che sarà. Ma subito, con una intuizione rara, si getta alle spalle l'Occidente, e come membro di una missione archeologica si trasferisce in Cambogia, « sprofondando » (scrìverà poi) « in un Oriente che ha dato appuntamento alla storia ». In Cambogia emerge naturalmente anche un discusso lato della sua personalità: quello dell'» avventuriero estetizzante ». Accasato dal governo indocinese di rubare statue Khmer, sfugge a un processo per l'intervento degli scrittori francesi. Ma l'avventura si tramuta in scelta politica, e Malraux, in prigione a Saigon, si mescola agli operai che preparano la « rivoluzione asiatica ». Fonda la rivista « Indocina » che diventa nel 1925 l'« Indocina incatenata ». Da quel momento si lega ai capi rivoluzionari annamiti, vietnamiti, cinesi, sovietici, e accumula l'esperienza da cui nascono « Les conquérants » e « La condition humaine », due libri che commuovono l'Europa degli Anni Trenta con la rappresentazione tesa, convulsa, potente, della rivoluzione cinese, del primo sciopero generale di Canton, e della grande repressione di Shangai. La morte di Kyo, l'attesa della morte dei coolies nelle prigioni dì Ciang Kai-shek, sono un inno all'uomo che « proprio nell'oppressione e nella persecuzione diventa cosciente della grandezza che c'è in lui e che generalmente ignora ». Naturalmente molti criticano questo Malraux « asiatico » che sembra appartenere alla razza di coloro che cercano l'azione solo per scrivere; peggio ancora, che danno appuntamento alla storia inseguendo la formula della « vita come arte ». Si faranno spesso i nomi di D'Annunzio, di Hemingway, di Oscar Wilde, e si accuseri Malraux persino di manipolazione della sua leggenda, quando rivelerà di aver descritto lo sciopero di Canton senza mai avervi partecipato, di aver ritratto Bo- rodin senza conoscerlo e di non essere mai stato a Shangai. Effettivamente Malraux aveva visto della Cina, negli Anni Venti, solo Hong Kong: quando vi era andato per nave a comprare dei caratteri tipografici per la sua tipografia rivoluzionaria di Saigon. Ma lo scarso valore d: queste critiche è proprio dimostrato dalla sua arte. La sua forza d'immaginazione, la sua testimonianza della tragedia umana orientale vissuta, in Indocina, sono sfociate in una rappresentazione dell'epica rivoluzionaria cinese malgrado lo scrittore non sia mai stato in Cina. L'impegno del primo Malraux non è di tipo hemingwayano né dannunziano. Gli anni che seguono dicono quanto questo impegno sia piuttosto di tipo esistenziale, un astratto furore in cerca dell'uomo offeso e del¬ la sua grandezza tragica. Inoltre, dicono bene quanto la sua personalità fosse semmai imperniata sopra un volontarismo più vicino a quello di Lawrence. Infatti, egli si mescola agli uomini che in Europa « marciano verso un destino di libertà sfidando la prigione, la peTsecuzione, l'oppressione ». Rientrato in Francia, si getta infatti nella lotta antifascista; progetta di liberare Trockij ancora prigioniero in Urss, porta con Gide una petizione a Hitler contro la condanna di Dìmitroff; tiene rapporti con Gorkij per difendere gli scrittori sovietici dagli assalti staliniani. Poi, nel '36, organizza una squadriglia di caccia bombardieri, e con essa partecipa alla guerra di Spagna, mettendo le basi dell'aviazione rossa. Il suo coraggio diventa leggendario, i suoi combattimenti non sono dimostrati¬ vi, né dannunziani. Nasce I'k Espoir », uno dei più alti messaggi all'Europa che va verso il massacro della seconda guerra mondiale. Nella guerra che inizia Malraux s'arruola in una compagnia di carri, viene ferito, fatto prigioniero dai tedeschi, evade, scrive « Les noyers d'Altenburg ». Nella disfatta francese Malraux raggiunge i maquis sotto il nome di colonnello Berger, viene ferito ancora, ancora arrestato, ma evade una seconda volta, e al comando della « Brigata Alsazia-Lorena », fa parlare di sé nella difesa di Strasburgo, nella conquista di Colmar. E sarà questa esperienza che segnerà il suo passaggio dalla sinistra al gollismo: perché in De Gaulle, che si è opposto alla resa francese, vede « la capacità dell'uomo d'essere grande, anche quando tutto è crollato ». Da que¬ sto momento, anzi, la sua vita si colloca a fianco di quella del Generale, di cui diventa ministro dell'informazione prima e poi della cultura. Per le sinistre si tratterà di « tradimento », d'« involuzione ». Ma per Malraux (come scrisse lui stesso nelle Antimemorie) « Questo era il solo modo possibile di non tradire la mia vita, di combattere per una speranza, in questa Europa senza più speranza, né lotta, né grandezza ». Il suo personaggio «libertario», infatti, trova spazio anche nel gollismo per esprimersi. Nel 1948 pensa di raggiungere Mao per entrare con lui a Pechino. Nel 1971, riveste il giubbotto d'aviatore e cerca di organizzare una forza di spedizione internazionale in soccorso del Bangladesh. Ma sono gli ultimi soprassalti di un personaggio in cerca d'« altri appuntamenti con la storia ». Malraux è ormai prigioniero dell'ultima scelta golliana, della sua stessa retorica. Inizia un Malraux diverso, ufficiale, esteta, stavolta davvero paragonabile a D'Annunzio. Il D'Annunzio della Quinta Repubblica. Naturalmente, la biografia e la bibliografia disegnano anche un altro Malraux: quello che accanto al dialogo con la storia e con la morte ha sviluppato un suo lungo dialogo con l'arte, che si dipana attraverso libri celebri: « La psicologie de l'art », « La voix du silence », « Le musée imaginaire de la sculpture », « La métamorphose des dieux », fino all'ultimo «L'intemporel». Al termine della sua vita, anzi, Malraux aveva preferito sviluppare solo questo lato del proprio personaggio, ambizioso d'essere tramandato alla storia come « esteta cosmico », elaboratore di teorìe sull'arte considerata « metafora dell'universo ». Nel 1973, organizzando a Saint-Paul-deVence il museo Malraux, egli ricordò infatti pochissimo della propria vita, riunendo solo una straordinaria quantità d'opere d'arte, statue mari, maschere africane, Picasso, Braque, Fautrìer, Léger, per indicare come da certe interrelazioni che scavalcano i tempi sia possibile intuire « il punto focale dello spirito contemporaneo ». Malgrado la bellezza dei suoi scritti estetici, è però certo che la sua fama restava vincolata ai suoi tre grandi romanzi sulla rivoluzione asiatica, sulla guerra di Spagna, e sulla « leggenda della fraternità ». Per quanto lo sì possa paragonare (come è stato fatto) a una « straordinaria miscela di D'Annunzio, Montherland, Junger, Péguy, Lawrence», Malraux aveva raggiunto con questi libri una grandezza che non s'è più ripetuta, e-she resta quella di uno dei più grandi scrittori del Novecento. Alberto Cavallari Parigi. II volto sensibile, quasi febbrile di André Malraux (Telefoto Associated Press)