E se tutti fossero onesti? di Nicola Adelfì

E se tutti fossero onesti? Voi e noi di Nicola Adelfì. E se tutti fossero onesti? Proviamoci a immaginare un'Italia da dove per incanto scompare ogni forma di delinquenza: tutti onesti, tutti miti. Secondo la lettrice torinese Carla B., un'Italia diventata così sarebbe un disastro immane: prima economico, subito dopo sociale, infine politico. Da un giorno all'altro verrebbero a trovarsi senza lavoro 200 mila carabinieri e agenti di p. s., 100 mila guardie notturne e guardie giurate, 100 mila avvocati, 100 mila tra magistrati e dipendenti dal ministero di Grazia e Giustizia. L'elenco è molto lungo, ovviamente incompleto e approssimativo. Per esempio, quanti sono i lavoratori nelle ditte che fabbricano congegni di sicurezza, dalle casseforti alle serrature e ai segnali di allarme per gli uffici, per le case e per le auto? E chi potrà mai dire il numero di coloro che vivono violando il codice penale, dai piccoli truffatori agli affiliati a cosche mafiose, dagli spacciatori di droghe agli evasori fiscali? E' una fauna eterogenea, innumerevole, sfuggente. Quanti sono? Vogliamo dire mezzo milione? O non è più probabile un milione? Chissà. Di sicuro c'è che anche costoro andrebbero a gonfiare la marea dei disoccupati in una Italia popolata solo da persone oneste e miti. E in un momento molto crìtico per la nostra economia non è forse prevedibile che quella vasta, esacerbata marea di disoccupati romperebbe gli argini sociali e le istituzioni democratiche? Chi mi scrive queste cose è proprietaria di una boutique, e si rivolge a me perché preoccupata che una austerità eccessiva, malintesa, possa produrre effetti analoghi a quelli di un'Italia senza più delinquenti. La signora Carla B. osserva tra l'altro: «Da ogni parte si tuona contro i consumi superflui, però nessuno viene mai a dirci esplicitamente quali consumi siano superflui e quali no: e uguale silenzio avvolge il destino dei lavoratori addetti alla produzione e alla distribuzione delle merci cosiddette superflue. All'origine di quel continuo tuonare sospetto una grancassa demagogica; e suppongo che il gran silenzio sulle cose da fare in concreto sia dovuto alla mancanza di idee precise sull'importanza del superfluo in una società e in una economia come la nostra ». Anzitutto che significa «superfluo»? Tutto ciò «che è in più del bisogno», secondo il Palazzi. Perciò, se eliminiamo tutti i consumi superflui indistintamente, non ci resta che conformar- ci al modello di vita dì San Francesco: un sacco per vestirci, erbe selvatiche e un po' di pane per cibo, una grotta per abitazione. Così ragiona la lettrice, e aggiunge: « In altre parole, dovremmo fare dell'Italia un Paese senza più ciminiere, senza più cantieri, senza più commerci. Un Paese insomma alluvionato dalla disoccupazione? Ma come faremmo a sopravvivere? L'unica ipotesi è un regime comunista che distribuisca in uguale misura agli italiani quel poco che il disastrato convento Italia può passare. La mia convinzione è che l'immagine di un comunismo di fame, e necessariamente molto poliziesco, fa venire i brividi agli stessi capi comunisti ». Ho l'impressione che la lettrice vada troppo per le spiece. Per questo mi affretto a consultare il professor Niccolò Tommaseo. Apprendo così, che il concetto di « bisogno » è molto relativo: significa cose diverse a seconda dei tempi, dei luoghi e delle persone. Dice quel professore: « Purtroppo, l'uomo si crea bisogni fittizi, i quali sono tutt'altro che naturali necessità, ma col tempo diventano prepotenti ». Per esempio, se all'improvviso siamo privati dell'uso del televisore, dell'auto o del telefono, ci sentiamo mutilati di una parte di noi stessi, diminuiti nella nostra libertà e personalità. Ci piaccia o no, noi viviamo in un'epoca in cui è molto difficile, forse impossibile, sottrarci alla prepotenza di molti consumi che la logica considera superflui. Basta passare davanti alle vetrine di un corso cittadino per accorgersi che la grande maggioranza delle merci esposte soddisfano « bisogni fittizi » e « tutt'altro che naturali necessità ». E allora, come la mettiamo? Da una parte il cattivo stato della nostra economia ci impone dì ridurre i consumi; e dall'altra, se chiudiamo le aziende che producono merci non dì prima necessità, subito scateniamo il mostro della disoccupazione ed esasperiamo il malcontento tra un numero incalcolabile di consumatori. Come la mettiamo, dunque, tra esigenze che fanno a pugni tra loro? A costo di ripetermi, torno a insistere su un punto: cerchiamo dì ridurre i conìumì di tutto ciò che imoortiamo dall'estero. Se il niliardario Tal dei Tali commissiona a un cantiere •taliano una « barca » di 200 milioni, posso criticarlo aul piano morale, ma mi dìco che in fondo egli dà lavoro a tecnici e operai italiani. Viceversa se egli acquista la « barca » all'estero, allora mi dico che egli toglie lavoro ai suoi concittadini e fa aumentare i nostri debiti con l'estero. Naturalmente faccio lo stesso ragionamento se vedo questo o quel prodotto straniero diffondersi tra le masse a scapito di un analogo prodotto italiano: in quel caso, il danno cagionato ai nostri lavoratori e alla nostra lira è di gran lunga maggiore di quello del miliardario che acquista la « barca » di lusso all'estero. Ecco detto quel che mi piacerebbe vedere spiegato con incisiva chiarezza da coloro che hanno in mano le redini della nostra economia. Dire che ci siamo impoveriti e perciò dobbiamo rassegnarci a trovare meno denaro nella busta paga e a pagare più caro quel che acquistiamo, può portarci a una indiscriminata riduzione dei consumi, con conseguenze perniciose per la produzione e per l'occupazione. Teniamo a mente che è da sconsiderati stringere la cinghia in modo da impedire la circolazione del sangue. Appunto per questo, a me sembra che sarebbe molto opportuno educare i consumatori a spendere il denaro nelle maniere meno sconvenienti per la nostra economia. Questo compito di divulgazione educativa non penso possa essere affidato al governo: gli manca lo spirito e l'inventiva per queste cose, la gente non gli crede, si muoverebbe impacciato dai trattati internazionali e dal timore di ritorsioni da parte di governi stranieri. Ritengo invece che più efficace e penetrante sarebbe un'azione a tappeto svolta dai sindacati. Tutto sommato, difendere i prodotti italiani significa difendere i posti di lavoro e i salari; e in definitiva aiutare la barca della nostra economia a mantenersi a galla.

Persone citate: Carla B., Niccolò Tommaseo

Luoghi citati: Italia