La sfida della Thatcher di Aldo Rizzo

La sfida della Thatcher QUANTO DURERÀ IL GOVERNO LABORISTA IN INGHILTERRA? La sfida della Thatcher La pugnace signora è la figura emergente del mondo politico inglese - Guida con successo la controffensiva dei conservatori contro il primo ministro, insidiato dall'ala sinistra del suo partito - Diventa probabile Io scioglimento anticipato della Camera (Dal nostro inviato speciale) Londra, novembre. Un giorno della scorsa settimana alla Camera dei Comuni, durante il «question time», l'ora delle interrogazioni parlamentari. Sono di sceria il primo ministro, James Callaghan, e il capo dell'opposizione, Mrs Margaret Thatcher. Il clima è dominato dai risultati delle recenti elezioni suppletive, che hanno visto i laboristi perdere clamorosamente le due ùntiche roccheforti di Workington e Walsall. Dice la Thatcher: «Il livello dell'indebitamento e quello della spesa pubblica dimostrano che l'intera strategia economica del governo Callaghan è in rovina. Ora che essa è stata condannata anche dall'elettorato, sarà lo stesso cancelliere dello Scacchiere, che non ha mai indovinato uria previsione economica, a presentare un altro bilancio e a correggere gli errori?». Callaghan (dopo aver ricordato che gli errori sono inevitabili, soprattutto in situazioni di crisi): «La signora Thatcher si è resa colpevole di un falso degno quasi di Goébbels, quando ha detto in un'intervista alla radio che "i laboristi ci lasciano sempre in una confusione finanziaria". Ricordo che nel 1970 lasciammo ai conservatori una bilancia dei pagamenti in attivo e un debito pubblico in fase di estinzione. Nel 1974, abbiamo ereditato una bilancia fortemente passiva e un deficit nel bilancio dello Stato di 4500 milioni dì sterline. La signora Thatcher avrà il pudore di ritirare quanto hù detto alla radio?». A sciabolate La Thatcher: «Dopo ciò che ha fatto alla sterlina britannica, e come capo di un governo che ha il record dell'inflazione e della disoccupazione, il Primo ministro intende cambiare una strategia economica che sta conducendo questo Paese al disastro?». Callaghan: «Noto che Ha signora Thatcher non ha il pudore di ammettere di aver detto alla radio cose totalmente ingannevoli. Anche nell'euforia della vittoria, dovrebbe avere un po' di rispetto per la verità. Allora, ha intenzione di ritirare le I sue dichiarazioni?». La Thatcher: «Con questo tipo di Primo ministro e con questo tipo di risposta, non mi domando perché i labori- sti siano stati travolti nelle elezioni suppletive». Così si svolge il dialogo tra il governo e l'opposizione di Sua Maestà, mentre dilaga la crisi economica e scricchiolano le stesse strutture politiche, nella più illustre democrazia d'Europa. E in questo gioco duro chi appare più a suo agio non è, chiaramente, l'anziano Primo ministro, giunto al vertice del potere dopo avere sperimentato tutte le tappe e tutti i meccanismi della lotta politica inglese, ma l'assai più giovane, bionda signora che ha sorprendentemente ereditato il posto che fu di Churchill e Macmillan. Cinquantun anni, figlia di un droghiere, moglie di un ex maggiore d'artiglieria, madre di due gemelli, Margaret Thatcher è il personaggio nuovo della scena politica del Regno Unito. Arrivata come puro outsider alla testa del partito conservatore, dopo la doppia sconfitta elettorale di Heath, accolta con una benevola attesa ve- nata d'ironia, ha superato con femminile tenacia le difficili prove iniziali, e ora sta sfruttando a fondo il momento favorevole ai «To- ries», incalzando con una dura determinazione il declinante governo del Labour Party. Da un punto di vista sociologico, rappresenta, anzi conclude il passaggio della leadership conservatrice dalle mani di un'aristocrazia indulgente e illuminata (il cui ultimo, estenuato esponente fu Alee Douglas-Home) a quelle di una borghesia medio-piccola, dall'ottica tendenzialmente angusta, ancorché capace di ampliarsi, con l'ampliarsi delle responsabilità. Una borghesia vittima dell'inflazione e della caduta della sterlina, l'uria e l'altra attribuite al «socialismo», inteso come burocrazia, spesa pubblica e strapotere dei sindacati. Tra due nemici Di fronte a Margaret Thatcher, alla sua energia e alle sue doti emergenti, sta un vecchio leader laborista-moderato, che non nasconde la soddisfazione di essere arrivato a 64 anni a un posto sognato per tutta la vita e la delusione di esserci arrivato nel momento peggiore, raccogliendo l'eredità lasciata bruscamente da quel grosso, complesso e opinabile leader che è stato Harold Wilson. (Da quando è al numero 10 di Downing Street, Callaghan ha smesso di bere e di fumare. Ha detto a un intervistatore: «Gli amici mi domandano se non mi costa fatica. Davvero no. Quando si arriva a essere primo ministro britannico, non si ha bisogno d'altro. Riprenderò, forse, quando avrò perso l'incarico. Allora avrò bisogno di qualche consolazione»). Ma Callaghan non deve fare i conti solo con la Thatcher e il suo «neo-conservatism»; è incalzato, dentro lo stesso Labour Party, dall'aggressiva ala sinistra di Anthony Wedgwood-Benn, che vorrebbe superare la crisi in direzione più spiccatamente «socialista», e così il suo compito è praticamente disperato. Ora la questione in Inghilterra non è se il prossimo governo sarà conservatore, ma quanto può ancora durare il governo laborista. Dopo le elezioni suppletive del 4 novembre, i socialisti dispongono di 312 deputati, ai quali vanno aggiunti due laboristi scozzesi e due nordirlandesi, per un totale di 316 voti ai Comuni. Il fronte dell'opposizione comprende 278 conservatori, 13 liberali, 11 nazionalisti scozzesi, 10 «unionisti» dell'Ulster e 3 indipendentisti gallesi, per un totale di 315 voti. E a gennaio ci saranno altre due elezioni suppletive, una delle quali per sostituire il laborista Jenkins, passato alla presidenza dell'esecutivo della Cee. E' chiaro che se il «Labour» dovesse perdere anche l'ultimo punto di maggioranza, o se la dissidenza dell'ala sinistra, che già preme minacciosamente per la destituzione di Healey dalla guida della politica economica, dovesse esplodere in forme aperte d'insubordinazione, il margine di sopravvivenza del governo Callaghan sarebbe assai ristretto. Ma non è certo che sia questo lo «scenario» immediato della politica inglese. E' possibile che, passata la burrasca di questi giorni, inaugurata la nuova sessione legislativa col discorso della Corona del 24 novembre, Callaghan trovi un periodo di relativa tranquillità. In ogni caso, formalmente, egli dovrebbe cadere per una mozione di sfiducia specifica, e questa dovrebbe essere votata da un fronte dell'opposizione che resta eterogeneo. Non è detto, per esempio, che i liberali, che votano con i conservatori contro le leggi socializzanti imposte dalla sinistra e dalle «Unions», si unirebbero ai «Tories» per buttar giù il governo a scadenza ravvicinata. Secondo il Guardian, anzi, proprio i liberali potrebbero dare un altro po' di respiro a Callaghan, se convinti n sganciarsi dal «neo-conserva- tism» della Thatcher, che essi aborrono sostanzialmente quanto i [aboristi. Ma i liberali subordinano ogni intesa politica, con l'uno o con l'altro dei due grandi partiti, all'elaborazione di un progetto di riforma della legge elettorale in senso proporziontilistico, cioè tale da assicurare loro una più equa rappresentanza parlamentare. E qui si apre un altro dilemma della vita politica inglese: la riforma elettorale sarebbe un bene, sarebbe un male? Sarebbe un bene, secondo alcuni, e questo perché sarebbe un fatto di equità, per cominciare, e poi perché consentirebbe aggregazioni parlamentari efficienti e omogenee, relativamente a un certo programma, e in prospettiva qualcosa di più: l'identificarsi di masse elettorali e di ceti politici in aree d'opinione diverse da quelle attuali, percorse da troppe interne contraddizioni (quindi un'ipotesi, persino, di ristrutturazione dei partiti). Per esempio, c'è più differenza tra la sinistra e la destra del «Labour» che tra quest'ultima e i liberali o gli stessi «Tories» più illuminati. Secondo altri, invece, l'introduzione di criteri proporzionalistici sarebbe il tramonto definitivo della stabilità britannica: l'inizio dell'era delle coalizioni aprirebbe la porta ti ogni avventura. Ma questo riguarda il futuro, più o meno prossimo o più meno remoto, e certo per ora i laboristi non pensano di concedere niente di specifico al Liberal Party. Per ora si gioca, si continua ti giocare una partita a due, sostanzialmente, la partita con i conservatori. E la posta è se i laboristi possano arrivare alla fine della legislatura (1979), o almeno avvicinarvisi. Può anche darsi di sì, pur se è più probabile di no. E tuttavia non sembra questo il dato più importante. Il dato più importante è quel groviglio di problemi che è sullo sfondo, problemi fra i più gravi che possa affrontare una moderna società industriale (inflazione, recessione, passivi paurosi in tutte le bilance, caduta cro¬ nica della produttività, con la sola voce attiva, ma ancora lontana e problematica, del petrolio del Mare del Nord). Problemi che nessuno dei due partiti, a conti fatti, appare in grado di risolvere da solo. Non il partito laborista, diviso tra le esigenze di un'austerità invisa alla sinistra e le tentazioni radicali di una sinistra invisa alla destra. Ma neppure, in prospettiva, il partito conservatore. Pur se oggi l'inflazione e la svalutazione della sterlina spingono masse crescenti a voltare le spalle al «Labour», domani il partito «Tory» dovrebbe fare i conti con sindacati tanto potenti quanto diffidenti e per di più percorsi da grossi brividi corporativi. Ne è consapevole l'ottuagenario Macmillan, l'ultimo grande leader conservatore, dopo Winston Churchill, il quale esorta a un governo di unità nazionale, che stabilisca una tregua tra le opposte ambizioni politiche e ideologiche e fissi una base di azione comune, contro quel nemico comune che è la crisi economica, come in guerra. E' una voce inascoltata, solitaria o quasi. Certo non l'ascolta Margaret Thatcher, che intravede nella presente situazione un'occasione preziosa per affermare la propria, rilevante personalità; e neppure l'ascoltano i capi laboristi di tutte le tendenze, condizionati anche dal ricordo di ciò che accadde a Macdonald nel 1931, quando, fatto un governo di unità nazionale, ne seguì una frattura nel «Labour», e poi un lungo dominio conservatore. Eppure, a questo punto, in Inghilterra come in ogni paese dell'Occidente industriale colpito dalla crisi e diviso all'interno, non si scorgono uscite di sicurezza diverse da una tregua, oltre che sociale, politica e partitica. Il che non vuol dire necessariamente alleanze di governo e di potere: può voler dire una sospensione temporanea delle ostilità, in vista di un superiore interesse comune, in vista di scongiurare un disastro comune. Aldo Rizzo Londra. La signora Margaret Thatcher, leader dei conservatori inglesi (Tel. Ap)

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