Falstaff come eroe comico di Massimo Mila

Falstaff come eroe comico LUCI E OMBRE NEL PRIMO SPETTACOLO AL REGIO DI TORINO Falstaff come eroe comico Nell'infatuazione che oggi è di moda per le opere giovanili di Verdi, si fa strada la tendenza a insinuare, sulla scia d'una celebre pagina di Bruno Barilli, che nell'ultimo suo capolavoro, miracolosa fioritura della fantasia d'un ottuagenario, si avvertano tuttavia le tracce della senilità, in una specie d'intiepidimento delle passioni drammatiche. L'ha ricordato anche Leonardo Pinzauti nella sua applaudita conferenza introduttiva, prendendo saviamente posizione contro questo rovesciamento di valori. Val la pena di spenderci qualche parola per precisare che tale rovesciamento avviene attraverso un'operazione riduttiva di «escamotage», cioè di occultamento, di tutto il fatto comico, che costituisce i quattro quinti dell'opera e nel quale la vena creativa verdiana vigoreggia con sbalorditiva freschezza di forme ritmiche, vocali e strumentali. Su di esso invece si sorvola artatamente, forse per l'annoso pregiudizio che il comico non possieda vera dignità artistica, e che anche in seno a capolavori giocosi, come appunto il Falstaff, il Don Pasquale, e magari II barbiere di Siviglia, si debbano a tutti i costi scoprire risvolti seriosi, drammatici e malinconici, di tristezza cosmica o di protesta sociale, allo scopo di nobilitarli. Certo, è verissimo che nel Falstaff i conflitti roventi delle passioni umane che costituivano il bagaglio drammatico del teatro verdiano, si presentano intiepiditi nella saggezza senile di chi vede i deliri dei giovani come nella lente d'un cannocchiale rovesciato. In questo senso Falstaff potrebbe parere una Luisa Miller, cioè un Amore e raggiro senza sbocchi tragici, e il monologo delle corna di Ford un'eco parodistica del disperato «Ah, mi tradla!» di Rodolfo, l'uno e l'altro gelosi a torto. La giovinezza del Falstaff è nella favolosa vivacità dell'invenzione comica, nella pungente leggerezza dei concertati, nell'eleganza quasi viennese della simulazione galante, nella stentorea esagerazione buffonesca di perorazioni vocali e strumentali, per non menzionare l'allegria di certi doppi sensi quasi goliardici, come l'impiego ostentato dei corni quando nel dialogo e nell'azione si tratta di corna. Proprio questo aspetto di vivacità effervescente, che fa del Falstaff una specie di gigantesca «aria dello champagne», è quello che è venuto in parte a mancare nella esecuzione che il maestro Molinari Prndelli ha pur regolalo con tanto dignitosa e accurata concertazione. Certamente avranno pure influito le burrascose vicende della preparazione, con sostituzione del protagonista a meno di una settimana dall'andata in scena, ma il basso Taddei non è in causa per questo, perché l'impressione d'una certa pesantezza di passo là dove invece occorrerebbe volare, d'una insistita sillabazione negli «staccati» velocissimi dei concertati, si estendeva anche alle numerose sezioni dell'opera in cui il protagonista non è presente, o è sepolto nella cesta del bucato. Al contrario, Giuseppe Taddei si è dimostrato artista intelligente ed equilibrato (e per quest'ultimo aspetto molto più indicato a legare con un direttore del tipo di Molinari Pradelli, che non l'estrosissimo e sfrenato Ganzarolli: veramente s'era voluto rischiare un matrimonio del diavolo con l'acqua santa). I cultori dei dati anagrafici, osservando che Taddei ha compiuto sessantanni, ritengono di rilevare nella sua esecuzione qualche traccia di fatica: ma Taddei non sembrava faticare sotto il peso degli anni, bensì sotto il peso dell'ingombrante pancione artificiale che avevano aggiunto al suo, già rispettabile. Qualche momentanea eclissi di voce sembra dovuta piuttosto a una diversità di coloriti, da concordare meglio con l'orchestra, che non a reali attenuazioni dell'organo vocale. Nella compagnia, tutta di buon livello, le donne si fanno la parte del leone. Uva Ligabue, sempre «genialotta», cioè spiritosa, cordiale e simpatica, ha messo a punto una Alice che diverrà ormai esemplare, come era stato un tempo per la Quickly della Casazza, poi prolungata dalla Barbieri, e ora qui, egregiamente, da Oralia Dominguez. Daniela Mazzucato è un'aggraziata Nannetta, e filando con vocina limpidissima e ferma le lunghe note di «come fa la luna» e i portamenti del «soffio etesio» ha finito col beccarsi l'unico applauso a scena aperta d'una serata, in verità, un po' fiacca. Anna Di Stasio completava con mezzi vocali adeguati il quartetto delle comari, mentre in quello maschile le ragioni del sesso forte erano onorevolmente difese dal baritono Alberto Rinaldi, dal tenore Bottazzo, dal tenore buffo Renato Ercolani e dal basso Foiani, bene assortita coppia dei servitori di Falstaff. Ed un buon contributo veniva anche dal tenore Piero De Palma, acido come si conviene nella parte del Dottor Caius. Le scene di Zeffirelli, nell'allestimento realizzato da Aulo Brasaola, sono sobrie, ragionevoli e accoglienti. Tanto più stupisce perciò l'im¬ proprietà dell'ultima, dove il frondoso parco di Windsor si riduce entro le domestiche arcate del giardino del primo atto, col solo artificio di ingrandirne l'unico alberello in una grossa pianta, la quercia di Herne. Per il resto, un domestico cortile, dove ci si aspetta di veder passare da un momento all'altro il gatto di casa, e razzolar galline. Anche per questo ambiente scenico sfavorevole, la regia di Filippo Crivelli, così scorrevole e affabile nei toni di commedia, perde di mordente nella féerie del finale, già sem¬ pre problematica in sé e per sé, con la coreografia di Giuliana Barabaschi e l'intervento del coro, ben preparato dal maestro Boni. In complesso, uno spettacolo assai dignitoso, ma che non rende intera (soprattutto a chi lo conosca per la prima volta) la grandezza enorme del capolavoro verdiano. Poiché il materiale esecutivo è sostanzialmente buono, c'è da sperare che lo spettacolo si avvicinerà all'altezza reale dell'opera nel lungo corso delle repliche. Massimo Mila Giuseppe Taddei, Falstaff per l'inaugurazione al Regio

Luoghi citati: Siviglia, Torino