È morto Man Ray di Marziano Bernardi

È morto Man Ray PITTORE E PROTAGONISTA DI TUTTE LE AVANGUARDIE È morto Man Ray Man Ray, « pittore e fotografo » americano per nascita, europeo per scelta, protagonista del Dadaismo, è morto ieri a Parigi. Aveva 86 anni. Malgrado la larghissima fama internazionale acquistata con innumerevoli mostre in tulo il mondo (ne vedemmo parecchie anche a Torino in questi ultimi anni), malgrado il favore d'una critica sempre più convinta della validità estetica di tante sue « follìe » Udo sono un po' folle », diceva egli stesso) ed i successi mercantili registrati dalle copiose vendite di certi suoi « oggetti » riprodotti ormai in serie e quindi impoveriti della originaria «sorpresa», malgrado una bibliografia enorme che riempie di titoli due grandi pagine della recente monografia edita da Sansoni (1974), curata da Lara Vinca Masini nella collana « I Maestri del Novecento » (di un'altra è autore il critico torinese Janus), è probabile che Man Ray, nato a Filadelfia il 27 agosto 1890, pittore, scultore, fotografo, realizzatore di incredibili film le cui pellicole cospargeva di sale e di pepe, di spilli e puntine da disegno, come nel suo primo film dal titolo alquanto contraddittorio, Retour à la Raison, è probabile, diciamo, che nella storia dell'arte del nostro secolo Man Ray trovi posto non come un creatore di capolavori artistici ammirevoli e memorabili, ma come un inventore di stupefacenti paradossi plastici, uno straordinario stimolatore di idee, soprattutto come un eversore di qualsiasi tradizione figurale. E' un destino che lo accomuna ad altri eccezionali « personaggi » che campeggiano sulla burrascosa scena artistica del tempo in cui viviamo. Anche per costoro c'è posto nel quadro che dicevamo, e il più legittimo è forse da assegnare a Marcel Duchamp, che non per nulla fu grande amico di Man Ray; ma sarebbe grave errore scambiare originalità e spirito inventivo con l'autentica poesia, e ricadere perciò in un nuovo secentismo che faccia della « meraviglia » il fine dell'arte. Un equivoco troppo frequente nella nostra epoca, che dura tuttora, e che è da considerare nel caso di Man Ray. La sua vocazione fu precocissima. Ancor bambino approfittava dei barattoli di tinte dei decoratori che verniciavano le persiane di casa per imbrattarsi il volto di verde; a sette anni colorava instancabilmente fotografie; tra i dieci e gli undici, a New York, senza maestri s'addestrava nel disegno; usciva però dal collegio « con una for- mazione tecnica completa, ì sebbene elementare, in archi- , tettura, meccanica, calligra- j fia » (cosi si legge negl'Autoportrait). La sua prima opera impor tante, Tapestry, campioni di st. ffa cuciti insieme, era però già astratta. Ma la fotografia, con la frequentazione assidua di Alfred Stieglitz nella galleria «291», lo attirava irresistibilmente. La coltivò contemporaneamente alla pittura, e nessuno può esitare a dichiarare Man Ray grande fotografo, uno dei maggiori del Novecento, anche se si possono avanzar dubbi su una sua invenzione cui teneva moltissimo: quella del Rayograph, prova fotografica ottenuta senza camera oscura, solamente con la luce, procedimento simile alla «solarizzaz'one». Frattanto il vento di Dada aveva attraversato l'Oceano: Duchamp, Man Ray, Picabia formarono il triumvirato del gruppo Dada newyorkese; ma al giovane americano occorreva portarsi alla fonte delle nuove sperimentazioni artistiche che lo affascinavano. Nel 1921 è a Parigi, accolto a braccia aperte dai dadaisti parigini; e da allora la sua vita, con il suo lavoro, si svolgerà ad alterni periodi tra l'Europa e l'America: fino alla morte rimarrà un artista internazionale, amico di tutte le vedette di tutte le avanguardie, sia come fotografo, sia come pittore o cineasta (comparve anche attore in un film di René Clair), sia infine come inventore di bizzarri «Objets», proprio quelli che per la loro stranezza gli diedero celebrità e popolarità. Non tutti conoscono L'objet à détrouire, un semplice metronomo che gli fu pretesto per una complicata, grottesca storia, mercé la quale fino a pochi anni fa egli firmava metronomi comprati a dozzine presso i negozianti di strumenti musicali; ed ogni firma, naturalmente, valorizzava l'aggeggio. Ma il Violon d'Ingres, metafora di i una delle odalische dipinte dal rivale di Delacroix, è davvero una graziosa trovata che rammenta l'hobby di Ingres, viclinista dilettante. Il pittore fotografò la schie- na nuda di Kiki de Montparnasse, bellissima modella, e sulle reni dipinse le due «ff» del violino. La spiritosa fotografia fece il giro del mondo. Forse qualche critico scorgerà nell'immagine reconditi, metafisici significati. A noi basta notarne la elegante ironia. La stessa ch'è suggerita dal Cadeau, un comune ferro da stiro, di quelli che una volta si scaldavano sul fuoco, irto di lunghi chiodi piantati sul piatto: irridente « dono » a una donna di casa. Man Ray amava questi scherzi, che potrebbero rientrare nel genere dell'arte « ludica ». Nelle sue mani un torso in gesso d'una Venere diveniva Vénus restaurée perché la legava con grosse corde annodate. Talvolta però andava (ed era andato) più nel profondo. Quando aveva fotografato il Grande Vetro di Duchamp, ancora in via di elaborazione e da tempo abbandonato polveroso nello studio dell'enigmatico artista, aveva battezzato la sua la¬ stra Elevage de poussière, con ciò sottintendendo la vicenda creativa dell'amico, materializzata in una specie di paesaggio misterioso con strani solchi e indefiniti rilievi. Lo stesso anno 1920 con l'Enigme d'Isidore Ducasse, « empaquetage » di un oggetto non identificabile dentro una stoffa legata da funicelle incrociate, aveva preceduto di trent'anni le « impaccature » di Christo e di quaranta i barattoli di Piero Manzoni, additando all'osservatore l'invalicabile limite delle conoscenze umane. Tra burla e serietà vorremo cercare in Man Ray, oltre l'innegabile agilità dell'intelligenza, oltre la capacità d'un continuo rinnovamento di idee, anche una « filosofia »? Sarebbe scambiare una spettacolosa attitudine al bricolage (e sia pure un bricolage artisticamente ispirato) col rigore di un sistema intellettuale. La sua vena inventiva era illimitata, riusciva talvolta contestatrice, ma anche la contestazione si manteneva a un livello scherzoso. Quanto alla sua pittura, di colore e di collage, partita dal cubismo (il Totem del 1914) per approdare all'astrazione, senza l'appoggio di prodotti come il Ballet francais, una scopa di bronzo dipinto, o la pipa con la boccia di vetro sul fornello, si disperderebbe nel panorama dell'arte astratta internazionale. Quella di Man Ray è una fama fragile. Lui vivente riempiva il mondo perché il « personaggio » era di un interesse enorme, e dal quasi novantenne « operatore artistico » si potevano ancora attendere nuove invenzioni. Ma è dubbio che le tante con le quali sbalordi tre generazioni in questo secolo resistano al tempo. Essendo troppo « datate » compongono un fenomeno che gli storici devono registrare, tenendo presente che di « fenomeni » è zeppa la storia delle arti, a cominciare dall'Arcimboldi; mentre gli artisti che di questa storia sono le pagine da rileggere in ogni epoca, sono rari. Marziano Bernardi Il celebre « Violon d'Ingres » di Man Ray Una delle più recenti immagini di Man Ray

Luoghi citati: America, Dada, Europa, Filadelfia, New York, Parigi, Torino