Perché Napoli è disgregata di Antonio Ghirelli

Perché Napoli è disgregata Perché Napoli è disgregata Sabato, su queste colonne, il professor Giuseppe Galasso ha pubblicato un'ampia recensione della recente ristampa einaudiana di « Napoli a occhio nudo », in cui tra l'altro mi fa anche l'onore di occuparsi della mia prefazione, definendola « agile » (un aggettivo che per uno storico italiano ha il valore di una riserva) e criticandola in più punti. Naturalmente, non polemizzerei in questa sede con talune delle sue osservazioni se esse non investissero argomenti non trascurabili della nostra storia passata e presente e non fossero, perciò, suscettibili di interessare anche l'amico lettore. Galasso, abbastanza paradossalmente, accetta la tesi di fondo della mia prefazione ma non ne trae tutte le logiche conseguenze. Scrive, infatti: « Che la classe dirigente della vecchia Italia liberale, così come quella della nostra felice Italia democratica di oggi, non abbia dimostrato di saper affrontare il problema e abbia tollerato il permanere di una situazione che rende tanto attuale, dopo un secolo, il libretto del Fucini... è un fatto, certo, scoraggiante, disperante, pericoloso per tutti e per tutto, gravido di imprevedibili conseguenze ». Ma subito dopo aggiunge che il fatto « va valutato con realismo storicistico », senza « vagheggiare nel passato ciò che vi fu o ciò che avrebbe dovuto esserci secondo le nostre vedute e i nostri problemi di oggi ». Siamo ancora, insomma, al « realismo storicistico » di Croce secondo cui « quei fatti sono avvenuti e nessuno può cangiarli; come nessuno può dire che cosa sarebbe avvenuto se non fossero avvenuti ». Sennonché, quella posizione il filosofo napoletano la mantenne fino al 1925, quando votò ancora la fiducia al governo Mussolini dopo il delitto Matteotti, ma ebbe poi a mutarla profondamente quando si risolse a scendere in campo contro la dittatura e pose al centro della sua concezione della storia non più la giustificazione del fatto come tale ma « la coscienza morale », ossia un « complesso di verità tenute per ferme ed inconcusse, le quali valgano da premessa e fondamento all'operare ». La sua « religione della libertà » non gli permise più di accettare le leggi liberticide, le assurdità e i delitti del fascismo, soltanto perché erano « avvenuti » e nessun partito democratico aveva al momento la forza di « cangiarli ». Non si può dire insomma che cosa sarebbe avvenuto, se l'Unità d'Italia fosse stata realizzata in modo diverso, ma si può e si deve dire che essa fu realizzata in modo errato; e ancora, non basta abbandonarsi a siffatta affermazione, ma bisogna comprendere le motivazioni ideali e materiali che condussero ad una certa soluzione. Non si tratta di vagheggiare alcunché, ma di scandagliare e di capire, soprattutto quando — come nel caso di Napoli — la classe dirigente non solo ha « tollerato il permanere di una situazione » disastrosa ma l'ha, nel corso di un secolo, ulteriormente e drammaticamente aggravata, fino ai limiti di una degradazione che molti temono irreparabile. Galasso critica come è nel suo diritto, la mia prefazione ma mostra di averla, letta frettolosamente, forse per colpa della sua « agilità ». Egli afferma, per esempio, che « l'Italia unita raccolse a Napoli un'eredità plurisecolare che faceva semplicemente paura », con l'aria di fare una sco' erta, quando invece io ho scritto esplicitamente che « le sventure di Napoli non erano cominciate con l'arrivo di Garibaldi » e che « obiettivamente, le condizioni della città borbonica erano assai meno felici di quanto non si sia favoleggiato più tardi»; e cito dati e cifre per dimostrarlo. Come borbonico, mi sarei dunque comportato in maniera stravagante. Non basta. Lo storico mi invita a tenermi a ciò che ne hanno detto i maggiori studiosi liberali, come se 10 non avessi derivato la critica all'unificazione (non certo all'Unità) proprio dalla « presa di coscienza » di Villari e degli altri intellettuali moderati, già definita a suo tempo « una autocritica del liberalismo risorgimentale ». Come marxpopulista, mi sarei rifatto dunque a testi molto sospetti. Ma forse il professor Galasso, che io ammiro grandemente come storico e come democratico militante, intendeva riferirsi al posto che faccio nella prefazione incriminata alle « suggestioni niente affatto suggestive, e anzi del tutto fuorviami, di scrittori come Capecelatro e Carlo ». Anche qui, ahimé, una lettura sommaria perché questi due autori extraparlamentari io li cito sì ma condividendo solo in parte le premesse da cui partono (« non esistendo, secondo loro, al momento dell'Unità un effettivo divario tra Nord e Sud ») ed approvando, invece, la sostanza della loro tesi: e cioè che 11 sottosviluppo del Mezzogiorno — non della sola Napoli — è stato conservato e promosso dallo Stato unitario in funzione dello sviluppo del capitalismo monopolistico del Nord. Si può al certo revocare in dubbio questa opinione, ma tenendo presente che essa somiglia assai da vicino a quella che i meridionalisti moderati di oggi, da Compagna a De Mita, vanno esprimendo a proposito del « boom » degli Anni Sessanta e della attuale politica di austerità, chiamando in causa a tale riguardo anche la responsabilità dei sindacati e dell'opposizione comunista. Ad ogni modo, ciò che resta indiscutibile è che il libro di Fucini è attuale dopo un secolo e che anzi la situazione di Napoli si presenta infinitamente più grave ai giorni nostri, sia in rapporto all'evoluzione dei tempi, sia in rapporto all'intrinseco sfacelo delle sue strutture. Ciò significa che non solo l'unificazione fu condotta nel modo sbagliato che mi riservo di dimostrare nel secondo volume della storia di Napoli a cui lavoro in questi mesi; ma che altrettanti c. più gravi errori si commisero successivamente col risanamento, con le leggi speciali del periodo giolittiano, con la riconversione industriale attuata dal fascismo, con il malgoverno di Lauro e di Gava. Da democratici italiani, e non da nostalgici borbonici o da populisti (il marxismo è un'altra cosa, molto seria), abbiamo il dovere di chiederci e il diritto di sapere se la disgregazione di una città come Napoli sia davvero definitiva ed irreparabile. Sono proprio « i nostri problemi di oggi » che ci spingono a fare, insieme, storia e politica. Antonio Ghirelli