Elegia per il padre liutaio nei quadri di Eso Peluzzi di Marziano Bernardi

Elegia per il padre liutaio nei quadri di Eso Peluzzi A Torino una mostra dell'artista Elegia per il padre liutaio nei quadri di Eso Peluzzi Quasi due anni fa scrivendo di una mostra torinese a «La Parisina» concludevamo con alcune parole che vogliamo ripetere: «Se la valutazione critica dell'arte moderna e contemporanea non risultasse spesso una lunga serie di ingiustizie, il nome di Eso Peluzzi sarebbe celebre in Italia più di quelli di molti artisti che sono sulla bocca di tutti per fama non sempre meritata». Le ripetiamo per invitare gli intenditori a visitare la nuova mostra di Eso Peluzzi, con la quale la «Dantesca» (nella libreria dei Fogola in piazza Carlo Felice 19) festeggia il quindicennio della sua raffinata attività: 19 dipinti e 28 disegni, scelti però non coi criteri soliti delle mostre «antologiche», ma piuttosto per suggerire — nota giustamente Renzo Guasco nella presentazione — l'immagine della « collezione di un privalo, di un amico del pittore che durante gli anni abbia raccolto i quadri che corrispondono ad un suo particolare gusto o stato d'animo ». Perciò dai dipinti esposti è escluso il Peluzzi ritrattista, il compositore di scene figurate religiose e profane, quello delle allegorie nelle quali si cimentò con gli affreschi del municipio di Savona e di quel Santuario nel retroterra savonese dove abitò e lavorò per trent'anni. Vediamo soltanto, legati da un'unica tenue nota lirica modulata con variazioni minime, con una sensibilità ineffabilmente vibrante — dal mirabile studietto giovanile del 1911, «Sul Po a Torino», al «Nevica in giardino» dipinto quest'anno a Monchiero — paesaggi e nature morte: quanto basta per definire con compiutezza perfetta l'idea ch'egli si è fatta dell'arte e della vita; cioè dell'unione inscindibile del proprio temperamento umano coi modi impiegati per rispecchiarlo, anzi per trasfonderlo nella forma pittorica. La grandezza artistica di Eso Peluzzi sta appunto in questa compenetrazione spirituale che nessuna forza estranea, nessun modello famoso sbandierato dall'ammirazione universale, nessuna prepotente diversa «corrente» estetica, sono mai riusciti ad incrinare. Diamo per scontati i suoi doni di tavolozza, le sue altissime qualità propriamente visive e manuali di pittore puro. Quei due palmi di natura morta datati 1926, due uova, un portauovo, due limoni, un barattolo, per squisitezza d'impasti materici e di fusioni tonali creano un'armonia forma-colore che non cede il passo non diciamo a Morandi, ma addirittura a Chardin. Una meraviglia. E Peluzzi con la sua modesta semplicità: « Un'esercitazione, una delle tante tavolette che dipingevo per "farmi la mano", e poi finivano chissà dove ». Quel che ci preme rilevare è la continuità del sentimento pittorico di Peluzzi: dai magri, essenziali, incisivi disegni (magari soltanto un albero spogliato dall'inverno, che col nero profilo ti fa sentire tutta la malinconia d'una gelida solitudine), ai quadri dove il colore si smaterializ¬ za in una struggente sensazione: citiamo «Neve verso la Langa» e «Nevica in giardino», opere che paiono fissare in immagine dei momenti poetici colmi di quella «amorosa trepidazione» che già trent'anni fa un altro poeta, Alfonso Gatto, riconosceva costante nella pittura di Peluzzi. Nulla può alterare in lui questo invariabile rapporto tra la propria intimità di pensieri e di sentimenti ed il concetto ch'egli attraverso una lunga meditazione propiziata dalla solitudine (dopo il Santuario di Savona ha scelto dal 1950 il borgo langarolo di Monchiero come inviolabile rifugio) si è fatto della vita dell'arte. Questa per lui altro non è che la estrinsecazione visiva della sua condizione umana, d'un suo modo d'essere che lentissimamente si è perfezionato fino a sublimarsi in un patrimonio morale che più nessuno gli può togliere. In esso Peluzzi scava di continuo per trarne una ricchezza ch'egli solo conosce, ma che chi contempla i suoi dipinti confusamente avverte. Tra quelli esposti in questa mostra vi sono quattro capolavori che svolgono un tema unico, il violino. Varcata l'ottantina, li ha dipinti in questi ultimi due anni impegnandovi con risultati stupendi tutta la sua straordinaria esperienza di lavoro. Li ha dipinti come se compisse un rito religioso risalendo con la memoria a suo padre che esercitava il nobile mestiere di liutaio. Uno si intitola infatti «Ricordo di mio padre liutaio», un altro «Brandelli e ombre di violini». Peluzzi si è rivisto fanciullo nelle ore in cui, nel laboratorio di Cairo Montenotte, suo luogo natio, guardava il padre compiere i cauti gesti quasi misteriosi per la composizione dei bellissimi strumenti. Ha rivissuto quei momenti che gli apparivano magici, ha riudito le prove dei suoni che la perizia paterna traeva dai legni verniciati, ed ha decantato il ricordo affettuoso in un'elegia pittorica di timbro leopardiano. Non cercheremo in questi quadri l'evidenza ottica, la fisicità tattile degli strumenti musicali dipinti dal Baschenis e seguaci. Pur rappresentati con rigorosa verità formale, oltre che con una magnifica maestria pittorica di colori bassi, di toni attutiti, vi cercheremo invece appunto l'«ombra» di un sentimento filiale che lievita ancora purissimo sul naufragio del tempo. In un'età veneranda Eso Peluzzi, sull'onda di quel sentimento, ha saputo esprimere intera la sua identità d'uomo. Come aveva saputo fare lungo tutta la sua vita d'artista. Marziano Bernardi

Luoghi citati: Cairo Montenotte, Italia, Monchiero, Savona, Torino