Napoli a occhio nudo di Giuseppe Galasso

Napoli a occhio nudo A UN SECOLO DALLA SCOPERTA DI FUCINI Napoli a occhio nudo La scoperta, dopo il 1860, del volto vero di Napoli, con il suo ventre putrescente e la sua disgregazione secolare sotto l'incanto irresistibile dei luoghi e la consumata civiltà di un'arte particolarissima del vivere in società, fu una scoperta nello stesso tempo immediata e lenta. Immediata, perché, unificata l'Italia, troppe e troppo importanti erano le occasioni quotidiane di contatto per amministratori e persone di altre parti del Paese con la realtà autentica della città per consentire che ne sfuggisse il contrasto stridente con l'immagine convenzionale e tradizionale della felice capitale di un Regno ritenuto opulento: paradiso abitato magari da diavoli, ma paradiso pur sempre. Lenta, perché la portata effettiva d>-ù problemi napoletani si palesava ogni volta superiore a ciò che si pensava acquisito alla conoscenza e alla sensibilità comuni. Pasquale Villari, che di quella scoperta era stato uno dei pionieri e dei protagonisti, tornando a visitare nel 1910 la città che aveva descritto già tanto accoratamente poco dopo l'Unità, trovava « ancora gravissima la questione di Napoli » e rinunziava, « sgomento », a proseguire un giro che aveva iniziato nei « quartieri » a monte di via Toledo dopo di aver ammirato le zone ricostruite dal Risanamento e dopo di essersi persuaso che lo sviluppo industriale della città fosse, pur cominciato. Del resto, si ha anche oggi il coraggio di guardare a Napoli e ai suoi problemi veramente « ad occhio nudo »? Per aver osato azzardare il timore che, nelle sue presenti condizioni, la città possa avviarsi piuttosto ad un destino di metropoli asiatica in coma che a quello di una moderna metropoli regionale europea, chi scrive si è sentito dire che voleva drammatizzare e fare del colore a tutti i costi e che, cosi facendo, dava n.*l ridicolo. Eppure avevo bene avvertito che il richiamo ad un destino da Calcutta del Mediterraneo era fatto, nel contesto di una realtà pur sempre occidentale, per quel che esso poteva e può significare, non per l'allineamento di Napoli a Calcutta (dobbiamo proprio aspettare di temere, in senso letterale, anche questo?), bensì per la distanza crescente di Napoli, non si dice da Stoccolma o da Amsterdam, e neppure da Torino o da Roma, ma perfino da piccole e civili cittadine del Nord e del Centro dell'Italia. Ma, si sa, la gente preferisce illudersi, e, in genere, tanto più quanto maggiori potrebbero esserne le responsabilità. Si dà, peraltro, il caso che i numeri e i dati di cui si ha notizia siano assai divergenti dalle illusioni. Un giovane giornalista ne ripeteva alcuni, qualche giorno fa, su un giornale settentrionale, di una eloquenza, ahimè!, inconfutabile: una mortalità infantile otto volte superiore a quella di Milano: 68 bambini su 1000 (che diventano in un quartiere come Secondigliano ben 137: la più alta punta italiana) defunti nel primo anno di vita contro 36 nella media nazionale; 1300 casi annui di epatite virale, di cui 900 a carico di bambini; 69.000 famiglie (oltre 350.000 persone) ancora abitanti in « bassi »; un mare cinque volte più inquinato della media italiana; e così via. Certo, non è la situazione di Calcutta, dove la gente muore di fame per le strade e dorme all'addiaccio. Ma è vero pure che qui siamo sulle rive del Mediterraneo, e non su quelle dell'Oceano Indiano; siamo alla immediata periferia di zone fra le più sviluppate del mondo. * ★ Ogni contesto ha le sue misure: quelle di Napoli nel contesto italiano ed europeo non sono espresse a sufficienza nemmeno dalle cifre che abbiamo or ora riportate. Bisognerebbe guardare ancora al reddito, all'occupazione, alla qualità della vita urbana che vi si vive, alla drammaticità di una congestione urbana stretta nella congestione della vasta area metropolitana circostante, non meno grave, e per alcuni aspetti, anzi, assai più grave, di quella stessa della città. E non parliamo del progressivo deterioramento della situazione generale. Per ora la tenuta delle forze politiche che danno affidamento di condotta democratica e senso di responsabilità è ancora buona, e nessuno spettro reggino o battipagliese sembra aduggiare l'orizzonte della città; ma neppure qui bisogna farsi molte illusioni: sintomi allarmanti di sfilacciamento non mancano. Questa serie di riflessioni malinconiche sono, in parte, occasionali: le ha provocate la rilettura di uno dei testi classici di quella scoperta della « vera » Napoli dopo il 1860, di cui si è detto, e precisamente della Napoli a occhio nudo, che Renato Fucini pubblicò nel 1878 presso Le Monnier e che ora, dopo un secolo, Einaudi ripubblica con un'agile prefazione di Antonio Ghirelli. Con ancora maggiore vivezza di impressioni e di immagini che non sia nelle corrispondenze napoletane del Villari, con un senso della sofferenza umana trasudante da vicoli e bassi che si ritrova maggiore solo nella grande Serao, la Napoli di Fucini è, innanzitutto e soprattutto, una Napoli della fame, della miseria e del dolore. Al Fucini accade di osservare subito che « l'aspetto della città di Napoli sembra tale, fuorché in otto o dieci delle principali vie, da porre addirittura il visitatore italiano nella illusione di trovarsi mille chilometri lontano dalla sua patria »; e gli venivano a mente i colori e le situazioni di cui aveva letto nelle descrizioni delle grandi e miserevoli città del Vicino Oriente: avrà voluto drammatizzare anche lui! Indubbio è, comunque, che se il suo reportage napoletano si raccomanda per qualcosa, se per qualcosa esso appare ancor oggi « attuale », non è certo per il suo, pur vivace, senso del colore, bensì per il realismo indiscutibile e scrupoloso di una descrizione nata dal fiero disinganno di un viaggiatore venuto a Napoli come « nella terra promessa ad incarnare un sogno dorato della giovinezza ». * ★ Si veda la lettera datata 14 maggio 1877, « dove si parla dei quartieri de' poveri ->; o quella datata 22 maggio, « dove si parla del Camposanto vecchio »; o le « spigolature » datate 30 maggio. E Ghirelli ha certo ragione di affermare che, « per quanto vivace e stringata » e « forse l'opera migliore di Fucini », Napoli a occhio nudo « non è un gran libro, stretto come rimane nei limiti di una corrispondenza giornalistica », e che anche sotto questo profilo essa resta « assai lontano dal vigore che la Serao attingerà nel Ventre di Napoli ». Direi però che il libro del Fucini è qualcosa di più di « una buona azione, una testimonianza civile ». La commozione e lo sconvolgimento provati dall'onesto toscano che visitò Napoli cent'anni or sono gli fecero scrivere un libretto che, nel suo genere, e con i suoi molti limiti stilistici e concettuali, è un piccolo capolavoro Ghirelli coglie, per la verità, l'occasione per spezzare anche qualche lancia contro lo « strangolamento » di Napoli che sarebbe stato operato dall'Italia unita e ripete i motivi di certa polemica già borbonica e poi marx-populistica sullo smantellamento della vecchia industria statale della Napoli pre-unitaria. La parte fondata di queste argomentazioni fu, però, già accolta a sviluppata dalla migliore pubblicistica liberal-democratica e riconosciuta in tutti i suoi limiti. * * Lo « strangolamento » di Napoli era null'altro che l'inevitabile risultato del necessario e benefico annullamento di quel privilegio della capitale sul Regno, per cui si aveva (e, continuando allo stesso modo, si sarebbe continuato ad avere) una situazione da definire soltanto nei termini di un titolo famoso: « Napoli e il deserto meridionale ». Per una Napoli « strangolata » abbiamo avuto una Bari, una Taranto, una Salerno, una Pescara, una Reggio, una Cosenza, di cui cent'anni or sono neppure si intravedeva l'ombra: è nato cioè il sistema cittadino moderno nel Sud, e sia pure con tutti i suoi limiti e deficienze. Si pensi che nel 1860 ad una Napoli con 450 mila abitanti corrispondeva come seconda città una Bari con 34 mila abitanti, e seguivano poi un altro paio di centri con un 20 mila abitanti; e si avrà una dimensione del rapporto patologico fra capitale e province, di cui già gli illuministi un secolo prima si erano accorti con vero spavento. E fosse stata almeno quella capitale una Parigi, una Londra: città* di commerci, di industrie e di finanza, città del capitalismo moderno, e non una parassitaria, gravosa e paralizzante capitale soltanto politica, amministrativa e culturale! C'è proprio bisogno di ricordare queste cose? C'è proprio bisogno di ricordare che fu a causa di tutto ciò, fra l'altro, che la parte migliore della classe intellettuale e politica del Mezzogiorno, sia liberale che democratica, da Spaventa a De Sanctis, da Pisacane ai minori e più oscuri democratici repubblicaneggianti e socialisteggianti, scelse senza indugio il « suicidio » della secolare indipendenza meridionale e la sua confluenza in una formazione politico-sociale non solo di più alto significato etico-politico, ma anche di assai più ampio respiro materiale? E quanto all'industria di Stato borbonica, ricordiamoci che di industria di Stato Napoli dall'Italia unita ne ha avuta in un secolo assai più di quanta gliene avessero data i Borboni, e si è visto a quel che sia valsa come determinante di una trasformazione industriale della città. Su questo punto me ne starei invero a ciò che ne hanno detto i maggiori studiosi, da Nitti a Romeo, a P. Villari, a L. De Rosa etc, e lascerei stare le suggestioni niente affatto suggestive, e anzi del tutto fuor¬ viami, di scrittori come Capecelatro e Carlo. Il fatto è che l'Italia unita raccolse a Napoli una eredità plurisecolare che faceva semplicemente paura. Che la classe dirigente della vecchia Italia liberale, così come quella della nostra felice Italia democratica di oggi, non abbia dimostrato di sapere affrontare il problema e abbia tollerato il permanere di una situazione che rende tanto attuale, dopo un secolo, il libretto del Fucini che Ghirelli ha presentato, è un fatto, certo, scoraggiante, disperante, pericoloso per tutti e per tutto, gravido di imprevedibili conseguenze. Ma esso va valutato con realismo storicistico, con animo aperto alla dialettica complessa e spesso contorta degli sviluppi attraverso cui si realizzano per lo più gli avanzamenti e i progressi delle società, specie di quelle più tarde e arretrate. Vagheggiare nel passato ciò che non vi fu o ciò che avrebbe dovuto esserci secondo le nostre vedute e i nostri problemi di oggi, non serve alla storia, e neppure alla politica. Giuseppe Galasso