Gli invasori sono a Est di Paolo Garimberti

Gli invasori sono a Est SECONDO LE MANOVRE MILITARI JUGOSLAVE Gli invasori sono a Est A Belgrado enumerano però i motivi per cui non dovrebbero muoversi - Dopo Tito, purga o lotte intestine? (Dal nostro inviato speciale) Belgrado, novembre. La minaccia all'indipendenza della Jugoslavia e all'autonomia del suo modello socialista viene da Est. Nessuno, a Belgrado, lo ammette apertamente, ma, egualmente, nessuno lo nega. La mobilitazione permanente contro i nostalgici filo-sovietici — i cosiddetti « cominformisti » — sembra dettata, più che da una situazione di pericolo obiettivo, dal desiderio del partito di sensibilizzare l'opinione pubblica. Le pene severe, che vengono loro inflitte in periodici processi (14 anni di carcere al gruppo del '74, vent'anni a Vlado Dapcevic, in luglio), hanno un duplice fine, psicologico e propagandistico: scoraggiare potenziali epigoni e mostrare la vigilante compattezza della Lega e del Paese. Le manovre militari si svolgono, quasi sempre, secondo un unico tema. L'ultima, denominata « Golija '76 », ha avuto per teatro un remoto altopiano ai confini tra la Bosnia, il Montene- grò e la Serbia: unità partigiane hanno attaccato alle spalle l'invasore e lo hanno sconfitto in una moderna versione della guerriglia partigiana di Tito. Secondo gli schemi della difesa nazionale generale, teorizzata dal ministro della Difesa Nikola Ljubicic in un articolo apparso undici mesi fa in Vojno Delo, l'intervento delle unità, partigiane (un milione di uomini) è il secondo stadio, cui si deve ricorrere se fallisce il primo (guerra convenzionale combattuta dai 230 mila uomini dell'esercito regolare). Nessuno ha ufficialmente identificato il potenziale invasore delle manovre « Golija ». Afa tre generali hanno spiegato sul Nin che, secondo i calcoli dello stato maggiore, il nemico dovrebbe entrare con una forza d'urto di duemila carri armati. L'unico canale, attraverso il quale è possibile convogliare in Jugoslavia una simile massa di blindati, è la piana ungherese. « The invader — ha titolato Z'Economist — is R....a ». Tuttavia, un'invasione sovietica — oggi, ma anche nel « dopo-Tito » — è ritenuta «altamente improbabile » sia negli ambienti ufficiali di Belgrado che dagli osservatori stranieri; e perfino dagli intellettuali che, pur non avendo simpatia per il regime, ne hanno ancor meno per l'Unione Sovietica. Molte spiegazioni vengono offerte per giustificare questo sentimento di sicurezza. Si ricorda, ad esempio, che i frequenti paralleli tra la Jugoslavia e la Cecoslovacchia sono frutto di un'errata visione storica: « Noi abbiamo avuto una rivoluzione socialista autentica, non imposta. Abbiamo creato un modello nostro, unico, tanto è vero che abbiamo dovuto confrontarlo con quello stalinista: era inevitabile... Se siamo potuti uscire dal campo sovietico, trent'anni fa, fu proprio perché non eravamo un satellite. La storia insegna che i satelliti non pos ■ sono sfuggire: appunto, l'Ungheria, la Cecoslovacchia ». Sì aggiunge che l'Urss sta adeguandosi, magari lentamente, alla realtà europea e mondiale: le conferenze di Helsinki e Berlino ne sarebbero la prova. Certo, si dice, questo adeguamento è piti facile sul piano dei rapporti interstatali che sul piano delle relazioni politicoideologiche tra partiti, dove l'Urss e il pcus devono preoccuparsi di mantenere intatta l'immagine di Stato e partito guida soprattutto verso il blocco socialista (ciò spiega la campagna sovietica, dopo Berlino, per il rafforzamento della coesione del campo socialista). Si afferma che la politica del non allineamento — intesa come proiezione esterna dell'autogestione — è una protezione e una garanzia: « La nostra sicurezza — dicono a Belgrado — sta in noi stessi, prima che fuori di noi. E' vero, siamo un'area delicata. Ma, più che stretti tra due blocchi, ci vediamo nel contesto mondiale e in tale contesto vediamo la garanzia della nostra sicurezza ». Perciò gli jugoslavi diffidano della distensione, almeno finché « la distensione sarà bipolare », e predicano continuamente « la democratizzazione del processo di distensione ». Infine (ma non è certo la ragione meno importante) si ricorda che « gli jugoslavi, a differenza dei cecoslovacchi, combatterebbero fino all'ultimo uomo, e i russi lo sanno ». Secondo i principi fondamentali della difesa nazionale generale, recepiti anche dalla Costituzione, nessuno « ha il diritto di firmare la capitolazione o di riconoscere l'occupazione di tutto il Paese o di parte di esso »; nessuno « ha il diritto di cessare di combattere o di mettere fine alla resistenza anche nelle regioni occupate ». Aiuti che pesano Sono tutti argomenti convincenti. Ma nessuno ignora, a Belgrado, che l'infiltrazione sovietica e il tentativo di recupero della Jugoslavia nell'orbita di Mosca possono usufruire di canali diversi — meno spettacolari e meno rischiosi — da quello dell'intervento militare; primo fra tutti il canale economico. La situazione economica della Jugoslavia non è brillante, né sul piano interno, né sul piano internazionale. Sul piano interno, ha ragione Djilas quando dice che affidarsi fideisticamente all'autogestione come ad un miracoloso toccasana « è un'utopia ». D'altra parte, anche negli ambienti ufficiali si riconosce che, pur esistendo l'autogestione da ventisei anni, molti problemi dello sviluppo economico del Paese sono ancora irrisolti. Il 15,1 per cento della popolazione (la Jugoslavia conta oggi 21 milioni e mezzo d'abitanti) è analfabeta. I disoccupati sono 630 mila su una popolazione attiva di 9 milioni di persone e un milione di jugoslavi è costretto a lavorare all'estero. Il reddito medio annuo prò capite supera appena i mille dollari. Le diseguaglianze nel tenore di vita tra le diverse regioni sono enormi: nel Kosovo la superficie abitàbile media è di 8 metri quadrati per abitante, come in Urss; in Slovenia è di oltre 16 metri quadrati. Il tasso d'inflazione ha superato il 20 per cento nel 1975. I partners pigri Sul piano internazionale, la Jugoslavia si presenta con un pauroso deficit della bilancia commerciale (nel 1975, il volume delle importazioni, espresso in dinari, è stato doppio rispetto al volume delle esportazioni). Il Paese è praticamente privo di materie prime, importa il 70 per cento del suo fabbisogno petrolifero e, soprattutto dopo la crisi energetica, il suo debito verso l'estero — che le fonti ufficiali si rifiutano ostinatamente di rivelare — è andato ben oltre i livelli di guardia. In questo quadro pieno di chiaroscuri, l'Urss — primo partner commerciale della Jugoslavia e principale fornitore di armamenti moderni, specie missili — svolge un ruolo di primo piano. A Belgrado si rendono conto lucidamente dei rischi politici insiti in questa partnership privilegiata con l'Urss. Mi ha detto Pelar Kostic, vice primo ministro della Serbia: « Noi cerchiamo di attuare una politica di diversificazione delle importazioni e delle esportazioni, proprio per evitare una dipendenza economica. Ma il successo di questa politica non dipende da noi ». E' un rim- provero all'Occidente — soprattutto alla Comunità europea — che non ha mai mostrato di comprendere le ragioni politiche, che stanno dietro alle insistenti richieste jugoslave di incrementare i rapporti commerciali con il mondo capitalista. Questo rapporto contraddittorio con l'Unione Sovietica (nel quale si giustappongono, ad ogni momento, il confronto ideologico e la cooperazione economica, le relazioni ufficiali d'amicizia e la vigilanza contro i filosovietici) condiziona la Jugoslavia, più di quanto appare, sul piano interno e sul piano internazionale. Il divieto di pubblicare e vendere le opere di Solzenicyn, dopo la sua espulsione dall'Urss, è un esempio indicativo. Manca, in tutta la pubblicistica jugoslava, un'analisi dello stalinismo e anche del potere contemporaneo in Urss. Le critiche a Mosca, anche sui giornali, sono circospette; si segnalano i pericoli d'incendio, ma non si fa nulla per spegnerli. Sui grandi temi della politica estera, la posizione jugoslava è quasi sempre parallela a quella sovietica. Come dice Djilas, « si denuncia l'imperialismo, da sempre sinonimo degli Stati Uniti, ma ci si dimentica di dire che oggi l'imperialismo è anche russo, anzi è forse soltanto russo ». Una volta di più, la funzione di Tito appare decisiva. Emotivamente, il maresciallo resta legato all'Urss: ne sente il fascino storico, il richiamo di una lotta comune sulla quale egli ha edificato il piedestallo del suo mito. Ma, in misura eguale e contraria, lo stesso discorso vale per l'atteggiamento sovietico verso Tito, caratterizzato da un fondamentale rispetto, che per gli jugoslavi è sinonimo di garanzia. I potenziali successori di Tito, a cominciare da Stane Dolane, non hanno pregiudizi sentimentali verso l'Urss, ma egualmente non incutono ai sovietici alcun timore reverenziale. « Tito — mi ha detto uno dei migliori osservatori di Belgrado — agita ogni tanto lo spauracchio dei comin)ormisti, ma sa che la sua presenza basta da sola ad esorcizzarne il demone nel partito e nel Paese. Ma i suoi successori, se non vogliono correre rischi, dovranno prima di tutto sbarazzarsi dei filo-sovietici, anche dei più tiepidi. Secondo me, il dopoTito s'inizierà con una gigantesca purga, oppure con una tremenda lotta intesti- na,K Paolo Garimberti

Persone citate: Kostic, Nikola Ljubicic, Solzenicyn, Vlado Dapcevic