Ancora Scanderbeg di Lia Wainstein

Ancora Scanderbeg Ancora Scanderbeg In poesie e romanzi, il destino dell'Albania baluardo d'Europa Ismail Kadaré: « A che pensano queste montagne (La nuova poesia albanese) », Ed. Il gabbiano, pag. 17, s.i.p. Benché tra le letterature europee quella albanese sia probabilmente una delle meno conosciute, il suo documento più antico risale alla metà del Quattrocento. Cent'anni dopo uscì il primo libro albanese, Meshari, una raccolta di brani tratti dal Vangelo, e nel 1635 Frana Bardi pubblicava il primo dizionario latino - albanese. Nei secoli successivi, oltre alle opere didattiche e religiose, si sviluppò, sotto la influenza turca e persiana, la poesia laica. Sin dal Seicento, nei vari generi letterari si manifestò, suscitata dalla resistenza popolare contro l'invasore turco, una vena patriottica, che alla fine dell'Ottocento contribuì al movimento di liberazione nazionale. Una seconda letteratura albanese, quella degli arberesi (dal nome dell'antico principato di Arberia), nata nel Cinquecento in Italia, nelle colonie fondate dai profughi, fu particolarmente rigogliosa nell'Ottocento. I suoi principali esponenti (I. De Rada, G. Darà, A. Santori) s'ispiravano a temi patriottici, quali le gesta leggendarie dell'eroe nazionale Scanderbeg. Il singolare destino di questo piccolo e valoroso paese, invaso ma non assimilato, diventato indipendente nel 1912 dopo una occupazione durata quasi cinque secoli, ha foggiato il carattere albanese. La necessità di difendersi da soli contro l'immenso impero ottomano, e insieme contro gli attacchi di Venezia, ha infatti creato negli albanesi l'orgogliosa consapevolezza di un loro particolare destino storico, quello di essere una cittadella, un muro di protezione anche per gli altri paesi europei minacciati dagli invasori. Già nel 1460 Scanderbeg scriveva a G. A. Orsini: « Se io fossi stato spostato, l'Italia lo sentina », e così oggi un pensiero analogo pervade le opere dello scrittore albanese Ismail Kadaré: « La nostra resistenza ci costa caro... ma pur bisogna che qualcuno si erga sul cammino dell'orda sfrenata, e la Storia ha scelto proprio noi ». Nato nel 1936 ad Argirocastro, Kadaré, dopo la laurea in lettere all'Università di Tirana, proseguì i suoi studi all'Istituto Gor'kij di Mosca fino al 1960, quando scoppiò il conflitto tra la Unione sovietica e l'Albania. Nel poema A che pensano queste montagne, uscito ora in italiano nella versione di Maurizio Caprile, Kadaré rievoca in tono solenne i motivi tradizionali della storia albanese. Nei trecento versi predominano tre temi: « Questa terra, che nei secoli ha prodotto I più eroismi che grano... I Ecco a che pensano queste montagne », l'attesa di una guida, cioè del Partito del lavoro (come dal 1948 si chiama il partito albanese) e, non meno importante perché sun¬ ! ?ol° d'indipendenza, « gt/esto \ lungo fucile... leva di Archimede per l'Albania». Marziale come poeta, Kadaré prosatore è raffinato ed originale. Per esprimere il patriottismo che serpeggia nella letteratura albanese, si serve, nei suoi romanzi II generale dell'esercito sepol- to, scritto nel 1966 e uscito in italiano a Tirana nel 1974 (Ed. « Naim Frashéri », pag. 338) e Les tambours de la pluie (Hachette, 1972, pag. 274) di una tecnica inedita. In entrambe le opere, l'Albania è vista attraverso gli occhi di stranieri nemici, descritti con un'obiettività dovuta senza dubbio alla consapevolezza della fatalità storica. Un atteggiamento che consente all'autore di far dire — con un'equanimità insolita anche nei paesi non comunisti — a uno dei personaggi stranieri: « Gli albanesi sono un popolo rozzo... Il fucile li accompagna sin dalla culla e diventa parte integrante della loro esistenza... Hanno sempre provato gusto a uccidere e a farsi uccidere». Questo il commento fatto al generale italiano, incaricato di ricuperare le salme dei soldati caduti in Albania nell'ultima guerra, dal cappellano suo compagno di viaggio. Più complessa è la struttura dell'ammirevole romanzo epico I tamburi della pioggia, che rievoca una delle prime campagne turche, quella del 1443, contro l'Albania. Figura dominante in questa guerra che doveva durare un quarto di secolo è l'eroe nazionale Giorgio Castriota, chiamato Scanderbeg in turco, presente nel romanzo come un'invisibile minaccia. Concise pagine in prima persona — il coro degli albanesi chiusi nella cittadella — si alternano con i capitoli in cui i personaggi turchi — Tursun pascià, il cronista, il mufti, le donne dell'harem, ecc. — in terza persona, vivono quest'assedio conclusosi, malgrado l'enorme disparità tra i combattenti, con la sconfitta turca. La forza infatti non può nulla contro questo popolo, le cui donne sono « come una nuvola mobile che quando la si vuol afferrare, non lascia nulla nella mano » mentre gli uomini « sopportano così poco la minima oppressione che come le tigri se la prendono con le nuvole sopra le loro teste c balzano per sbranarle ». Il messaggio di Tamburi della pioggia non si esaurisce tuttavia nella rievocazione di un glorioso passato e nell'esaltazione delle virtù nazionali. In questa lotta pei l'indipendenza di un popolo contro un nemico assai più potente si può vedere — ce ne avverte una nota introduttiva — un'allusione alla situazione in cui l'Albania, il più piccolo dei paesi socialisti, venne a trovarsi nel 1960 quando da sola dovette resistere al blocco politico ed economico imposto dall'Unione Sovietica e da tutti i paesi del Patto di Varsavia. Lia Wainstein

Persone citate: Europa Ismail, Giorgio Castriota, Maurizio Caprile, Orsini, Santori