i pugnalatori

i pugnalatori i pugnalatori di LEONARDO SCIASCIA L'avvocalo Guido Giacosa, padre dello scrittore piemontese Giuseppe Giacosa, nel 1862 arriva a Palermo come Sostituto Procuratore Generale. Il V ottobre, in punti diversi della città, tredici persone vengono gravemente ferite di coltello. Arrestato, il lustrascarpe Angelo D'Angelo con/essa e rivela una « orribile macchinazione » di nostalgici dei Borboni. L'inchiesta conduce all'arresto e al processo di undici esecutori. Affiora tra i mandanti il nome del principe di Sant'Elia, senatore del Regno. Dopo i rapporti di un « informatole », Giacosa fa perquisire il palazzo del principe: entro una stanza murata si scopre un manichino con infisso alla schiena un pugnale. Ci sono arresti, che non intaccano la rete di complicità. Il Sant'Elia fa pervenire le sue proteste al governo, il Senato si schiera con lui. XV. DAL procuratore Giacosa e dal giudice istruttore Mari tutti — governo, senato, camera dei deputati, magistrati di grado superiore al loro, giornali — volevano sapere per quale ragione un uomo come il Sant'Elia, che aveva «salutato» l'unità nazionale, e accompagnato il saluto con un po' di denaro, si sarebbe in un breve volger di tempo convertito alla causa della restaurazione borbonica. Lo chiedevano a loro. A loro che avrebbero voluto chiederlo al Sant'Elia; e non potevano. Non conoscendo il principe di Sant'Elia ma un po' conoscendo la storia del Regno delle Due Sicilie, Giacosa rispondeva che «le storie non sono avare, anche al presente, di esempi simili; e specialmente la storia di Napoli e Sicilia, che a cominciare dall'epoca normanna e poi nella sveva. angioina, aragonese e spagnola, non fu che una sequela continua di cospirazioni baronali per scacciare il nuovo signore e rimettere l'antico, e ripigliar da capo a congiurare contro l'antico per rimettervi il nuovo. E con questa serie di tradizioni cospiratorie, recherà tanta meraviglia che un ricco patrizio cospiri senza un perché ragionevolmente spiegabile?». E a sua volta, a chi gli demandava di trovare un movente all'azione di cui accusava il Sant'Elia, domanda va: «I fatti cessano forse dall'esser fatti sol perché non se ne sa assegnare una ragione plausibile? E perché nessuno sa comprendere qual motivo avesse il principe di Sant'Elia per cospirare, si dovrà a prio¬ ri negare che cospirasse e negare i fatti più gravi che lo colpiscono? Il motivo! E chi ha mai saputo penetrare nel cuore umano! E quanto spesso non si vedono uomini commettere opere inesplicabili!». Anche tra coloro che erano stati assoldati per pugnalare, abbiamo visto, era corsa la stessa domanda: perché il principe di Sant'Elia si metteva a cospirare contro un governo che non gli era avaro di cariche e di onori? E la risposta che si erano dati, che Castelli si dava parlando col Mattania, non era diversa di quella che se ne dava il procuratore Giacosa. Era una risposta, diciamo, di specie storica e, si direbbe oggi, sociologica. «Quelli che sanno leggere e scrivere ed hanno denaro» — diceva Castelli — «non sono mai contenti, cospirano sempre per guadagnare da tutti; e noi che siamo poveri esponiamo la vita e dobbiamo soccombere, che non li accuseremo mai, non siamo infami come D'Angelo, ci faremo mandare a morte senza dire una parola, poiché così le nostre famiglie continueranno ad essere soccorse... Questi signori vogliono fare come nel quarantotto. Forse perché non hanno avuto grandi cariche da Vittorio Emanuele prendono denaro da France sco II e vogliono fare succe dere la rivoluzione. E il loro denaro li protegge sempre». C'erano anche altre ragioni d'ordine generale e che ci avvicinano a capire quelle particolari, personali, del Sant'Elia. Per queste ragioni, a dispiegarle, il richiamo di Castelli al 1848 è assolutamente pertinente: e si vedano le ritrattazioni, le giustificazioni, le richieste di perdono, le profferte di eterna devozione alla dinastia dei Borboni che quasi tutti i nobili siciliani indirizzarono a quel re Ferdinando di cui nel parlamento «rivoluzionario: — da pari, da deputati — avevano entusiasticamente proclamato la decadenza. Documenti a dir poco vergognosi, e per tutta una classe; di una viltà che attinge al comico più grossolano. Leggendoli, è facile immaginare come la stessa classe, le stesse persone, fossero dopo quattordici anni disponibili a risalutare la restaurazione borbonica, a chieder perdono a Francesco II dei loro brevi errori («vaghi errori» come quelli dei fiori che scendono su Laura nella canzone Chiare, fresche e dolci acque) garibaldini e savoiardi. In quel 1862, le condizioni della Sicilia dovevano apparir loro in tutto uguali a quelle del 1849: tali cioè che sarebbe bastato lo sbarco di qualche reggimento borbonico in un qualsiasi punto della costa a far sì che tutta la Sicilia violentemente insorgesse contro i piemontesi. Nel popolo, nella piccola «burgisia» agraria (ogni volta che per le cose siciliane si deve parlare di borghesia è opportuno o lasciare la parola in dialetto o farla seguire da un aggettivo; per esempio: borghesia mafiosa), la delusione era grande: le tasse; la leva militare obbligatoria alla quale gli abbienti sfuggivano pagando e i poveri dovevano sottostare da tre a sette anni; l'esproprio dei beni ecclesiastici che andava a tutto vantaggio della grande «burgisia» fondiaria, tanto più rapace e dura dell'aristocrazia feudataria. C'era poi, gravissimo, il problema dell'ordine pubblico: e pare ci fosse davvero differenza tra come, dal '48 al '60, Maniscalco aveva diretto la polizia e le incertezze, gli avventati rigori e le non meno avventate debolezze, gli sciocchi machiavellismi con cui la dirigevano i questori sabaudi. Al modo del Bolis «prelodato», per dirla col linguaggio del Giornale Officiale. Insomma, la restaurazione borbonica doveva sembrare non solo possibile, ma sicura e vicina. Comitati borbonici si costituivano spontaneamente — e, si capisce, segretamente — in ogni parte dell'isola: e crediamo se ne meravigliassero lo stesso Francesco e il suo fedele ministro Ulloa, che sulla devozione dei siciliani non contavano per nulla. Era il momento, per i siciliani che avessero fiuto, di preparare i loro titoli di fedeltà a Francesco II: ma cautamente, ma accortamente; e insomma facendo quel doppio gioco che abbiamo visto andar bene, tra fascismo e antifascismo, giusto ottant'anni dopo. E di fiuto la classe ari- stucratica ne aveva, c affinato da secoli. Si dirà che se il principe di Sant'Elia questo gioco doppio lo fece, non mostrò di essere cauto, di essere accorto: se arrivò a dar totale confidenza e fiducia a una spia e — sbaglio anche più grave — ad esporsi come capo agli occhi di quel bracciantato criminale di cui eran parte Castelli, Masotto, Cali; e Angelo D'Angelo. Ma questo suo agire apparentemente incauto e persino sciocco, possiamo anche considerarlo come supremamente accorto; come un vertice, una sublimità, un'apoteosi del doppio gioco. Appunto nel condurlo scopertamente, tanto scopertamente da far¬ lo apparire incredibile. Come di fatto apparve. E' poi possibile che tanto azzardo fosse dal Sant'Elia valutato come necessario: secondo le sue ambizioni e secondo la situazione del momento. Nella sollevazione che si credeva imminente del popolo siciliano, nella conseguente restaurazione borbonica, egli teneva forse ad apparire come il primo e più alto artefice del mutamento: subito, inequivocabilmente, per acclamazione popolare prima che per riconoscimento di Francesco II (che peraltro sarebbe tornato come re costituzionale). In effetti, quel che aveva avuto dai Savoia s'apparteneva, nel senso del potere, alle apparenze: solenni, grandiose; ma apparenze. Senatore del Regno per censo; rappresentante del re ai tedeum e nelle processioni. Il potere reale era in altre mani. Tanto vero, questo, che nessuno fermò Giacosa prima della perquisizione; nessuno gli diede, né esplicitamente né velatamente, avvertimento di cautela, di riguardo. In data 13 febbraio Giacosa aveva scritto al ministero di Grazia e Giustizia della sua intenzione di andare avanti nelle indagini contro i principi di Sant'Elia e Giardinelli, e prospettando le difficoltà — che spettava al ministro di rimuovere — relative alla qualità di senatore del Sant'Elia. Il Guardasigilli non aveva reagito né di meraviglia né di dolore. Si riservava di farlo in Senato il 24 marzo: intanto, tacendo, lasciava che i due magistrati credessero al suo consenso, al suo adoperarsi a rimuovere le difficoltà. Ed è possibile il silenzio del ministro fosse dovuto a incuria, a disattenzione; ma è anche possibile si volesse fare andare avanti la cosa fino a gettare sul Sant'Elia un certo discredito. E non oltre. Disattenzione o calcolo, è comunque certo che per un mese nessuno si mosse in favore del Sant'Elia: né dal ministero di Grazia e Giustizia né da quello dell'Interno. Contro un uomo che fosse stato effettualmente potente, o non ci sarebbe stata disattenzione o il calcolo sarebbe stato realizzato fino a distruggerlo. Sant'Elia era stato eletto deputato del collegio di Terranova (la Gela di cui era duca) nel 1861: di destra, na- turalmente. Era poi stato nominato senatore. Di maneggio politico non aveva che la massoneria: una loggia — di destra, naturalmente — che ci par di capire gestisse come in proprio, e non si capisce bene quel che da certe altre logge siciliane la dividesse e quel che a certe altre l'avvicinasse. E può darsi venisse da rivalità massoniche l'intenzione, a livello ministeriale, di discreditarlo fino a un certo punto. Insomma, una certa delusione per quel che aveva avuto dal governo sabaudo poteva anche sentirla; e conseguentemente nutrire la certezza di poter aver di più dal Borbone. E non sarebbe stato il solo: deputati siciliani al parlamento nazionale, avvicinati da un agente borbonico (che però era agente del governo di Vittorio Emanuele) con proposte di restaurazione, avevano mostrato inclinazione ad accettarle o almeno a non respingerle. Ed erano uomini i cui nomi, come di artefici del Risorgimento, leggiamo oggi nelle lapidi celebrative. * ★ Con quel che avevano in mano, Giacosa e Mari non erano in grado di costruire contro il principe di Sant'Elia un'accusa tanto solida da resistere al processo dibattimentale, di fronte ad avvocati difensori che non sarebbero stati quelli dei poveri o quelli d'ufficio. Speravano però di riuscire a costruirla: con la pazienza, l'acume, il coraggio che ci volevano e che avevano. Intanto, chiedevano di poter trattare il principe come un qualsiasi altro cittadino indiziato di un così grave reato; come quegli altri che erano già in carcere. «Scindere questo processo» — scrive Guido Giacosa — «non si può. Conservar ciò che si riferisce agli altri, eliminare ciò che si riferisce al Sant'Elia, è impossibile. Accusare, giudicare, forse condannare gli uni, mentre l'altro, confuso nelle stesse prove, menzionato negli stessi documenti, oppresso dagli stessi argomenti, se ne va libero, onorato, potente, sarebbe tale un fatto che pregiudicherebbe in un modo troppo pernicioso ogni sentimento di giustizia e screditerebbe la magi¬ stratura e le patrie istituzioni... Non v'è magistrato, che abbia la coscienza e la dignità del suo ufficio, che possa sostenere l'accusa contro gli imputati tutti, ove il massimo imputato, ed evidentemente il più reo, sfugga ad ogni sanzione penale». Ma già sapeva — e lo scriveva nella relazione destinata al Guardasigilli — «che alla prima cospirazione tendente a gettare il paese nella insurrezione e nell'anarchia, ora se n'è sostituita una seconda che ha per iscopo di eliminare ad ogni costo tutto ciò che potrebbe condurre allo scoprimento della prima; e la sparizione del primo rapporto da me compilato, sparizione che non si prò credere casuale, ne è una prova luminosa». E se la prima cospirazione era stata sventata, impossibile era sconfiggere la seconda. Diceva: «Noi non disperiamo». Ma era già disperato. L'ultimo documento del dossier che, ..per privata e familiare memoria, aveva messo assieme, è una seconda lettera a quel magistrato, di grado più alto del suo, da cui sperava (aveva sperato) solidarietà. «Le dirò che sono stanco, angosciato, sfinito da non poter più reggere. Le fatiche fisiche e le preoccupazioni morali cagionatemi da questo processo son tali e tante che, se non fosse per il benefizio di una ferrea salute, avrei già dovuto ritirarmi... Ma ormai non posso più reggere». E dice di aver chiesto un congedo — «che mi è indispensabile per recuperare in seno alla mia famiglia quella forza e quella serenità di cui ho tanto bisogno» — e il trasferimento. «Ove non fosse, preferirei l'aspettativa, preferirei la dimissione, preferirei tutto al rimanere più oltre in Sicilia». Credeva di dovere la sua sconfitta, la sconfitta della legge, la sconfitta della giustizia, alla Sicilia: alle «abitudini, le tradizioni, l'indole, lo spirito di questo disgraziato paese, assai più ammalato di quanto si presuma». La doveva invece all'Italia. (continua) © Copyright 1976 by Leonardo Sciascia Francesco II delle due Sicilie, re esiliato e cospiratore

Luoghi citati: Italia, Napoli, Palermo, Sicilia, Terranova