Il campione e l'uomo

Il campione e l'uomo Il campione e l'uomo Che autunno gramo, doloroso. Se ne vanno amici veri, giocatori, ragazzi e poi uomini con I quali abbiamo diviso su barricate parallele, a volta anche opposte, I momenti più belli della loro e della nostra vita di lavoro. Dopo Carletto Mattrel, Giorgio Ferrini. Uno schianto contro una fila di salici; la fine silenziosa In un letto di ospedale, dopo una Illusione di guarigione durata pochi giorni, seguita da un alternarsi di speranze e scoramenti. Povero, caro Giorgio. Mi aveva detto quando decise di chiudere la carriera: «So bene quanto guadagnano 1 compagni, posso immaginare quanto prende Radice. Sono cifre che non mi interessano. Il calcio ed il Torino mi hanno già dato molto. Adesso mi baste uno stipendio da capofamiglia, con due figli ed una moglie da mantenere». L'ha vissuta solo per un anno questa parte di capofamiglia, lieto della nuova sistemazione di lavoro, preoccupato di conservarla, felice di poter essere ancora col suo Toro, orgoglioso di poter dividere con I vecchi compagni e con chi lo aveva sostituito lo scudetto che non era riuscito a conquistare sul campo. Molta gente muore giovane, sempre la reazione è quella di un rifiuto rabbioso della realtà. Ma per tipi come Giorgio Ferrini, Il rifiuto di chi come me non sa di medicina, e si lascia Influenzare da un semplice e certo labile rapporto fra aspetto fisico e salute, diventa netto, la realtà sembra Incredibile, quasi cancellabile. Invece occorre Inchinarsi, superare II terrore che provoca II pensiero «ma allora, anch'io da oggi a domani...», ricacciare l'inutile Interrogativo «ma perché, proprio a lui, a loro?». E ci si attacca al ricordi. Giorgio Ferrini era cambiato una volta lasciato II campo per la panchina, ma anche se adesso nella nuova veste di vice-tralner era diventato più loquace, più aperto, erano sempre gli occhi a parlare per primi. Durante le trasferte, quando le viglile si vivono più a contatto con la squadra, ci si rivolgeva a lui per capire lo stato d'animo del Torino che stava per affrontare l'Impegno. Lo si interrogava con lo sguardo, erano discorsi fra gente diventata improvvisamente muta. Ed il cifrarlo era chiaro: un sorriso e tutto era a posto, un ammiccare preoccupato e c'erano problemi, ma se chiudeva gli occhi voleva dire che lui ed I compagni andavano In campo con un certo timore dell'avversario. Una ammissione onesta, fatta la quale ci si gettava sul terreno con lo slancio di sempre. E così dopo la gara, quando le porte dello spogliatoio si aprono finalmente al giornalisti, I suol giudizi erano netti: « facile », oppure « niente da fare», talvolta «ci hanno rubato la partita». Poche battute, nessun giro di parole. Giorgio Ferrini era al Torino da più di vent'annl, ci arrivò dalla Ponziana (suggerito, secondo alcuni, da José Curtl, acquistato dall'avvocato Lievore) all'inizio della stagióne '55-'56, ragazzino già solido ma ancora 'da fare- come giocatore. Se ne occupò Blda Ussello, Insuperabile preparatore, poi il -mulo- venne mandato a farsi le ossa in C nelle file del Varese. Dalla città lombarda non voleva più tornale, aveva conosciuto Mariuccia che doveva diventare sua moglie e che ora non sa darsi pace, assieme a Cristiana (dodici anni) ed Amos (otto). Sul tavolo di redazione ci sono le foto dell'ultima intervista, fattagli poche settimane or sono quando 10 si vedeva, lo si voleva, avviato alla piena guarigione. Amos e Cristiana guardano con occhi pieni di gioia e di afletto il papalone rude e buono, tornato dall'ospedale rapato, smagrito, con una cicatrice In fronte ma Infine tornato. Se ne è ripartito nella notte, mentre loro dormivano e quasi non hanno capito. E non ha più visto la sua bella casa al Pino, rifugio sognato e costruito con anni di lavoro serio, faticoso per lui che non aveva avuto dagli dei del calcio 11 dono di quella cosa impalpabile che siamo soliti chiamare -classe'. Era un lottatore, un giocatore torte, uno di quegli atleti che fanno squadra anche se privi del piede vellutato. I suol tackles ed I suoi dribbllngs erano II segno della potenza di un fisico robusto. Per il Torino ha giocato sedici campionati, Il primo del quali — stagione '59-'60 — In serie B. Sono 443 le partite ufficiali disputate da Giorgio in maglia granata tra serie A e B. Alla cifra vanno aggiunte le gare di Coppa Italia e quelle dei tornei internazionali, le gare amichevoli. Due successi In Coppa Italia, Il titolo europeo (e quello di cavaliere) con la Nazionale sono le coccarde appuntate su una carriera esemplare per dedizione e sacrificio. Anche al Torino, a causa dei tifosi stessi, ha avuto momenti difficili. Ma a gioco lungo ci si è sempre accorti che la squadra aveva bisogno di lui, pure negli ultimi tempi quando II suo passo cominciava a diventare pesante. Ma chiedete agli allenatori che l'hanno avuto con loro, soprattutto al massaggiatori che meglio di tutti conoscono I segreti di spogliatoio, di che tempra fosse Giorgio. Quante partite abbia giocato con le caviglie doloranti, I tendini stanchi, con I segni di botte non ancora guarite. Mai ne ha fatto una scusante. Il ritratto dell'uomo-giocatore esce da particolari come questi. SI era affezionato a Torino, non solo al Torino. Quando si seppe della sua decisione di chiudere con il calcio, da Trieste lo tempestarono di telefonate, di Inviti. I dirigenti della Ponziana, la squadra del borgo dove è nato, lo volevano come allenatore, come animatore, come bandiera per tentare — non avventurosamente, ma con alle spalle una certa sicurezza economica — una escalation che bilanciasse II decadimento della Triestina. « CI ho pensato un poco — disse Giorgio —, ma ho preso la decisione senza fatica. Resto qui, ormai la mia vita è legata a questa città ». E da ieri pomeriggio questa città certo chiusa, ma che sa affezionarsi a chi dimostra di apprezzarla, lo ricorda con commozione. Gli occhi lucidi della gente che dà a Giorgio l'ultimo saluto al Filadelfia testimoniano di un dolore che non è solo del tifosi granata. Imre Senkey, Beniamino Santos, al quale era affezionato come un figlio, Nereo Rocco, Cade, Mondino Fabbri, Giagnoni, ancora Fabbri hanno avuto la fortuna di avere Ferrini con loro nel Torino. Forse solo con Cade ci furono incomprensioni. Per tutti, comunque, è stato di esempio al compagni, In campo e fuori del campo. La Nazionale (sette partite nella A, cinque nella B, sei nella giovanile) l'ha chiamato solo a tratti. GII ha fatto pagare duramente, con anni di 'quarantena; l'espulsione ai mondiali del Cile, dura sentenza dell'arbitro inglese Aston. Tornò amareggiato, ma non distrutto, da quella esperienza. Sì consolò rituffandosi nel Torino, faticando, lottando. Altre amarezze gliele hanno procurate I giornali che più volte lo hanno descritto come un killer, pubblicando l'elenco delle sue squalifiche. Diceva: • Li capisco, ragionano sui dati, sulle cifre. Ma non sanno cosa vuol dire giocare in una squadra che non ha protezioni, che non ha amici In giro, che ogni domenica in campo è sola con le sue capacità». Se II Torino nnn si è sfasciato in passato, se ha vìnto lo scudetto, se ha giocato In Coppa Campioni, non poco merito è del vecchio caoitano. Bruno Perucca

Luoghi citati: Cile, Filadelfia, Italia, Torino, Trieste