Il modello di Belgrado di Paolo Garimberti

Il modello di Belgrado JUGOSLAVIA PAESE CERNIERA TRA EST E OVEST Il modello di Belgrado E' l'autogestione di fabbriche, ospedali, giornali, la conquista nella quale si riconoscono tutti gli jugoslavi Belgrado, novembre. Passeggiando per Belgrado si ha l'impressione — fastidiosa e perfino inquietante come tutte le sensazioni indefinite e indefinibili — di camminare sullo spartiacque tra l'Europa occidentale e l'Europa orientale. La struttura stessa della città è ambivalente. Novi Beograd, la Belgrado nuova che s'incontra venendo dall'aeroporto, è città occidentale al cento per cento. Ma, al di là del ponte sul Danubio, la Belgrado vecchia ha gli stili architettonici, i colori grigio-ocra, gli odori inafferrabili della città orientale. E, dentro la Belgrado vecchia, l'alternarsi dell'Occidente e dell'Oriente continua in una successione, sema ordine né logica, di alfabeti diversi, il latino e il cirillico; di negozi ora ricchi ed eleganti per merce e arredamento, ora poveri e sciatti. I parcheggi con tassametro, indice di motorizzazione di massa, sono tipicamente occidentali; ma i taxi Volga, che odorano di caramelle, ricordano Mosca o gli aerei delZ'Aeroflot. Le librerie sono invitanti, ma poi offrono Marx o un libro sull'autogestione, un saggio sulla Cia oppure Tichij Don di Sholochov. Politika non sfigura accanto al Monde o al Times (specie per i servizi dall'estero), ma Borba è quasi peggio della Pravda. Questa sensazione di ambiguità accompagna lo straniero anche quando si addentra nell'analisi delle strutture socio-politiche e della collocazione ideologica della Jugoslavia. Un solo partito Come all'Est c'è un partito unico, ancorato ai princìpi della dittatura del proletariato e del centralismo democratico, che non ammette dissensi, né correnti, e neppure un dibattito democratico sulle sue risoluzioni. « Una volta che le decisioni sono state prese noi esigiamo evidentemente che tutti le rispettino e le eseguano », ha detto Tito l'anno scorso, a suggello d'un periodo di restaurazione della supremazia del partito. Ma, a differenza dell'Euro- pa orientale, la gestione dell'economia non è centralizzata, né pianificata dall'alto secondo lo schema autoritario della command economy. Il concetto di profitto è fondamentale, le imprese possono fallire, gli scioperi non sono legalmente istituzionalizzati, ma neppure formalmente vietati (ve ne sono stati 2.000 tra il 1958 e il 1974, secondo le statistiche fornitemi dalla presidenza dei sindacati). Il sindacato non è una cinghia di trasmissione degli ordini del partito, però non svolge funzioni rivendicative. I rapporti tra cultura e potere sono nuovamente improntati ad un dogmatismo di tipo orientale, dopo il moderato liberalismo della fine degli Anni Sessanta. Ha detto Tito: « Potremmo forse permettere che, in nome della libertà d'espressione, si mettano in pericolo la nostra fraternità e la nostra unità, che si minacci il nostro sistema sociale? Potremmo forse permettere che si svolgano liberamente in Jugoslavia attività destinate a restaurare il capitalismo contro il quale i nostri popoli presero le armi durante la rivoluzione? ». L'apparato poliziesco è capillare ed efficiente, anche se non è più uno Stato nello Stato come ai tempi di Rankovic. I processi politici sono frequenti (nel 1974, secondo Amnesty International, 1400 persone sono state giudicate per reati d'opinione), ma rare sono le condanne severe: il caso di Mihajlo Mihajlov, condannato un anno fa a sette anni di carcere, è l'eccezione che conferma la regola. In tutta Belgrado i « dissidenti » privati di passaporto sono una ventina. Milovar, Djilas non ha il passaporto, ma il figlio studia alla London School of Economics e la moglie è libera di viaggiare. Gli otto professori di Praxis sono esclusi dall'insegnamento, ma tengono corsi e lezioni nelle università americane e tedesche . Tuttavia, gli jugoslavi non amano che si definisca il loro Paese come lo spartiacque tra Est e Ovest e il loro modello come un socialismo incompiuto, o un capitalismo imperfetto; e s'infuriarono terribilmente quando express uscì con una cover story su: « Yougoslavie: le pop-socialisme ». Ad un seminario teoretico, svoltosi due mesi fa a Titograd, il dottor Franjo Kozul ha detto che « il socialismo e la nuova società non possono essere limitati da meridiani e paralleli ::. La Jugoslavia e il suo modello, dicono, hanno una precisa identità, che non può essere misurata né con i parametri occidentali, né con quelli orientali, ma, semmai, trova punti di riferimento e di confronto soltanto nel pensiero di Marx: « Secondo Marx, la nostra sarebbe una libera associazione di produttori, o almeno questo è l'obiettivo finale », mi dice Zarko Papic, un giovane economista teorico, che lavora al comitato centrale della Lega dei comunisti serbi. Come si può intuire da queste parole, la carta d'identità del modello jugoslavo è l'autogestione. Varata nel 1950, rafforzata e approfondita con la Costituzione del 1974 e con la « legge sul lavoro associato » (in questi giorni all'esame del Parlamento), l'autogestione si fonda sul principio che i lavoratori gestiscono direttamente la « proprietà sociale », che « appartiene a tutti e a nessuno al tempo stesso ». Anche l'esercito Lo Stato non possiede stabilimenti, imprese, linee di trasporto, e via dicendo: tutto è proprietà sociale, tutto è gestito dai « consigli operai », eletti a scrutinio segreto, che. nell'ambito di ciascuna entità economica, nominano e revocano i direttori, assumono e licenziano i lavoratori, fissano i salari e i prezzi di vendita, ripartiscono i profitti dopo aver regolato gli obblighi verso la comunità (i comuni, le repubbliche, la federazione) rimborsando crediti e finanziamenti. E' relativamente semplice enunciare i grandi principi teorici dell'autogestione, ma è estremamente complesso capire e spiegare come essa funziona in pratica e fino a che punto è davvero libera da influirne di partito o autoritarie. Me ne sono reso conto visitando la Rekord, una fabbrica di pneumatici e articoli di gomma all'estrema periferia di Belgrado. Lo scheletro della struttura aziendale è così articolato. Vi sono sei « organizzazioni di base », una per ogni branca di produzione, e una settima « organizzazione di base » per i cosiddetti « servizi comuni » (finanze, contabilità, quadri, pianificazione). C'è un « consiglio operaio » per ognuna delle « organizzazioni di base » e un « consiglio operaio » per l'« organizzazione integrata » (cioè la fabbrica del suo insieme). Ogni «organizzazione di base» ha un direttore, eletto dal «consiglio operaio»; f«organizzazione integrata» ha un direttore generale e due « vice », pure eletti dal « consiglio operaio». / direttori formano un consiglio di direzione, che sovrintende alla politica generale dell'azienda sulla base della indicazioni dei «consigli operai». Ma i veri organi deliberanti dell'impresa sono le « assemblee degli operai », parlamenti aziendali esistenti sia a livello delle « organizzazioni di base » che a livello della « organizzazione integrata ». Basti dire che nell'approvazione del piano annuale dell'impresa, così come in tutte le maggiori decisioni, intervengono tutti gli organismi che abbiamo elencato, con l'aggiunta dei sindacati, e i rappresentanti delle cosiddette « organizzazioni socio-politiche » (la Lega dei comunisti, la Lega della gioventù, e così via). Ogni decisione è dunque il frutto d'un gigantesco contratto collettivo, che si chiama infatti samoupravljacki dogovor. Il sistema d'autogestione è globale: tocca ospedali, teatri, case editrici, giornali, scuole, università e perfino l'esercito. Funziona? E' arduo rispondere a questa domanda e lo stato dell'economia jugoslava suggerisce risposte contraddittorie (più negative che positive, in verità). Però, come osserva un diplomatico occidentale, funziona perfettamente sul piano psicologico: « Tutti ci credono perché dà loro un'identità ». Un'identità che tutti, egualmente, sono disposti a difendere con i denti contro qualsiasi minaccia e contro qualunque aggressore. Paolo Garimberti

Persone citate: Franjo Kozul, London, Marx, Mihajlov, Zarko Papic