Ford: una presidenza difficile tra il "Watergate" e il dollaro

Ford: una presidenza difficile tra il "Watergate" e il dollaro Ford: una presidenza difficile tra il "Watergate" e il dollaro Roma, 3 novembre. E' stato forse il presidente più deriso e vilipeso della storia americana, e di certo il meno capito e apprezzato. S'è sempre portato sulle spalle, ingiustamente, il fardello delle grevi battute dell'amico-nemico Lyndon Johnson: «Gli è difficile fare due cose alla volta, come masticare gomma e camminare». Ha sovente mosso all'ilarità il Paese con i suoi incidenti e le sue gaffes. Eppure, il giudizio sui due anni e mezzo di Gerald Ford alla Casa Bianca non può essere del tutto negativo. Come dice il leader democratico George Ball, «ha incominciato con la sventatezza dei boy-scout, ma ha concluso con l'autorità dello statista». Apponendo la parola fine alla propria vicenda, egli ha chiuso dignitosamente uno dei periodi più bui del dopoguerra, e aperto la strada al rinnovamento. Chi s'immaginava, anche solo la settimana scorsa, che il «buon Gerry», il presidente di transizione, il tappabuchi per antonomasia, conquistasse alle urne metà dei voti americani, sbarazzandosi dei tristi retaggi del suo predecessore Nixon? O che lasciasse a Carter, erede ideale (ma occorrerà verificare) di Kennedy e di Roosevelt, una nazione unita, purgata dalle colpe, ansiosa d'agire? E tuttavia è accaduto proprio questo. In due anni e mezzo, Gerald Ford ha curato le ferite del Watergate e del Vietnam, difeso con successo il dollaro e l'econoinia, impedito nuovi conflitti in Africa e nel Medio Oriente, ridimensionato la Cia e l'Fbi, intaccato le strutture repressive della democrazia. E' vero, ha commesso molti gravi errori: ma pochi avrebbero saputo far di meglio. Probabilmente la storia sarà più tollerante di quanto non siano stati i suoi connazionali, riconoscendo in lui uno dei propri strumenti oscuri e indispensabili. Ricorderà come il «buon Gerry» fu catapultato alla Casa Bianca nel corso di una notte, l'8 agosto del '74, dopo pochi mesi di un'assurda vicepresidenza, impostagli da Nixon in sostituzione del bellicoso e scomodo Spiro Agnew. Aveva già 61 anni, e veniva da un quarto di secolo d'esercizio politico alla Camera, puntiglioso e scialbo, prima come semplice deputato, poi come leader della minoranza repubblicana. Fu colto di sorpresa dalle dimissioni di Nixon, e i primi cento giorni, la tradizionale «luna di miete» del presidente con l'elettorato, si trasformarono in un incubo. Restava «fi rappresentante del quinto distretto di Michigan», «l'ex-giocatore di football americano», mancava di statura. Le cronache iniziali confermarono i sospetti su questo avvocato di provincia, poco brillante, ostinatamente conservatore, con una numerosa famiglia e una moglie insopportabile. Essi si acuirono quando Gerald Ford perdonò a Nixon il Watergate, e bloccò col veto importanti riforme in Parlamento, contravvenendo alle proprie professioni di moralità e di giustizia. All'e' stero, presero a chiamarlo «l'uomo che accompagna Kissinger nei viaggi». Diffidavano della sua ingenuità e della sua rettorica. In un certo senso, questi limi¬ ti furono la sua fortuna. Abituato a mediare e negoziare in Parlamento, e perciò più pronto al compromesso che alle innovazioni, pur tra continui alti e bassi, confusioni e contraddizioni, egli riuscì a saldare le fratture interne per restituire la serenità al Paese. Stabilì perfino un'intesa operativa con Breznev e Ciu En-lai, con Schmidt e con Giscard d'Estaing. A poco a poco, la «minoranza silenziosa» (la maggioranza si era dissolta con Nixon) s'identificò in lui. Fu provvidenziale che un «mister Middle America», come lo chiamavano alla fine, e non un presidente carismatico, quasi rivoluzionario, sedesse alla Casa Bianca in una fase di catarsi. Il suo impegno (il «buon Gerry» comincia a lavorare alle 6 del mattino), la sua talora palese incompetenza, la sua fede nel laisser-faire, nella non ingerenza dello Stato negli affari privati dei cittadini si rivelarono altrettanti sonniferi, tutti adatti ad addormentare gli animi per rinviare la soluzione dei problemi. Forse la storia smentirà la condanna o il rigetto del presidente Ford su tali basi, ossia solo perché addormentò molte coscienze e ignorò questioni cruciali. Qualsiasi altro presidente, anche più abile e fortunato, ten¬ tando riforme radicali avrebbe accresciuto la divisione dell'America e le ostilità tra i suoi poteri. La vera colpa di Ford è di non avere inserito la rappacificazione nazionale in un quadro organico e costruttivo. Egli non ha mai posseduto un grande disegno alla De Gaulle, né un sogno alla Kennedy. Come osserva il suo ex collega ed ex compagno di giochi Charles Goodell «è innanzitutto un terzino, e il buon Dio non gli avrebbe certo affidato il reparto della creazione». La sua colpa è di avere ossequiato i grandi interessi industriali, trascurando i diritti civili, il pieno impiego, le minoranze (a partire dai negri) e i diseredati. Ma a tutto ciò penserà il suo successore. Il periodo che inizia ora è quello della ricostruzione culturale e civile dell'America. Sarà compito di Carter dimostrare di possedere quelle qualità mancate all'ex «boyscout della Casa Bianca». Ennio Carette Washington. Il presidente americano Gerald Ford se ne va. Nella fotografìa è con la moglie e il suo cane nel giardino della Casa Bianca (Telefoto Associated Press) In un certo senso, queti liLa rubrica "Figure e fatti" di Giovanni Arpino è a pag. 19

Luoghi citati: Africa, America, Medio Oriente, Michigan, Roma, Vietnam