Non sempre l'uomo è "amico del cane" di Bruno Ghibaudi

Non sempre l'uomo è "amico del cane" Dopo la strage di Imperia Non sempre l'uomo è "amico del cane" Se non siamo in grado di sobbarcarci gli oneri affettivi, lasciamoli liberi al loro destino (forse sarà migliore) I cani erano un centinaio, tutti trovatelli c tutti bastardi. Dopo essere nati chissà dove ed essere stati abbandonati da chissà chi, avevano trovato cibo e carezze in un rifugio allestito alla meglio una quindicina d'anni fa da una pensionata di Imperia sul greto di un torrente alla periferia della città. Negli ultimi tempi il braccio di ferro fra il Comune, che voleva cancellare il canile, e la proprietaria Luciana Marvaldi, che non sapeva dove trasferire le sue bestiole, si era fatto più forte. Buon senso e civiltà lasciavano però sperare che prima o poi si trovasse un accomodamento. Invece la soluzione è stata il massacro. La sera del 28 agosto le polpette avvelenate hanno ucciso una buona parte dei cani. Poche ore dopo in piena notte, le ruspe inviate dal Comune ne hanno schiacciato alcuni sotto i cingoli e ne hanno seppelliti altri ancora vivi sotto le macerie. Qualche cane è stalo trovato il giorno dopo nei dintorni, agonizzante sotto l'effetto di un veleno assunto in misura insufficiente. Pochissimi i superstiti. Fra questi Zampone, che è riuscito a raggiungere la casa della Malvaldi e a dare l'allarme abbaiando furiosamente. A chi ha dato l'ordine di sterminio e a chi l'ha eseguito, veleno e ruspa sono apparsi la soluzione migliore di un problema nel quale la pietà, la tolleranza e il rispetto della vita sono stati ritenuti fattori assolutamente irrilevanti. Le reazioni della stampa italiana sono note, come lo sono quelle degli zoofili di tutta Italia i quali — con molta ingenuinità, a nostro avviso — hanno perfino invitato i responsabili di questa barbara carneficina a dimettersi. Nel nostro Paese ci vuol ben altro che il massacro di una novantina di cani per costringere la gente a lasciare la poltrona. Abbiamo ricordato lo sterminio di queste bestiole sotto la spinta di un raccapriccio c di uno sgomento che ancora ci ferisce, ma il nostro discorso vuole andare oltre. Circa un mese fa gli accalappiacani del comune di Roma hanno prelevato una novantina di cani da un rifugio gestito da un'anziana signora. La maggior parte degli animali erano ammalati; alcuni sono stati ritenuti irrecuperabili e quindi soppressi in maniera indolore. Qualche settimana prima ne erano stati rinvenuti una trentina in un appartamento, tanto denutriti e affamati da spingere i superstiti a divorare le carni di quelli già morti da alcuni giorni. Casi come questi non sono infrequenti, capitano un po' dovunque e purtroppo non saranno neppure gli ultimi. I veri zoofili non si limitano però ad addolorarsi quando questa triste realtà esplode ma cercano di impedire che ne sopravviva la matrice. Ed è quasi sempre una matrice di afflizione, di amarezza, di incomprensione e di solitudine, oltre che di pietà, quella sulla quale si intrecciano i destini di persone sole e prive d'affetto (generalmente donne nubili e di una certa età) e di povere bestiole abbandonate da padroni insensibili e quindi ancora più disposte a ricambiare con molto attaccamento una carezza o una scodella di cibo. E fino a quando le une e le altre continueranno ad esistere in questo mondo impregnato di insensibilità e di egoismo, i casi come quelli di Roma o di Imperia saranno sempre possibili. A farne più duramente le spese, non dimentichiamolo, sono però sempre gli animali. Per impedire che queste tristissime situazioni si ripetano bisogna impedire che gli animali vengano abbandonati e si riproducano eccessivamente ma nello stesso tempo bisogna anche educare la gente alla vera zoofilia, quella che ricerca innanzitutto il bene autentico degli animali. In primo luogo bisogna quindi tener presente che il problema del randagismo deve essere affrontato a monte, individuandone le cause e contenendone gli effetti. E le cause sono già note. La maggior parte dei cani randagi vengono da famiglie che dopo averli acquistati cuccioli per poche migliaia di lire sulle bancarelle, se ne sono liberati appena hanno scoperto che l'animale non era di razza, aveva una forma non troppo aggraziata, creava qualche disagio in casa o impegnava troppo per le passeggiate, incideva (anche se in minima parte) sulle spese della famiglia o non era più disposto a farsi tormentare dai figli troppo possessivi che pretendevano un comportamento da giocattolo vivente senza riconoscergli alcuna capacità di reagire. E quando una o più di queste condizioni si manifesta, la sentenza è una sola: fuori l'animale. Ogni anno gli italiani, prima di partire per le ferie, sono soliti mettere fuori casa circa 300 mila cani e altrettanti gatti, oltre ad uccelli, pesci e ad animali di numerose altre specie, rettili compresi. Tuttavia il pensare di raccogliere tutti gli animali randagi in rifugi che in poco tempo traboccano e impongono la dolorosa decisione di escludere altri ospiti è pura utopia, soprattutto quando i rifugi non vengano intesi come luoghi di sosta temporanea, in attesa di trovare all'animale un padrone, ma come prigioni permanenti e definitive. A parte l'alto costo iniziale per realizzare impianti confortevoli e soprattutto tanto grandi da ofTrire lo spazio necessario alle necessità vitali degli animali, il peso maggiore proviene dalla gestione. Chi vuole veramente il bene degli animali deve garantire loro cibo (circa mille lire al giorno) , protezione (almeno un guardiano ogni 30 animali), medicinali e assistenza veterinaria. Il conto dei costi è presto fatto e tocca livelli considerevoli. Senza queste premesse si creano soltanto lager per animali, dove la denutrizione e le malattie fanno stragi più tremende della strada a cui sono stati sottratti e dove le buone intenzioni non bastano quasi inai a procurare il necessario per una esistenza già così mortificata. Non sia quindi soltanto il nostro egoismo, anche se inconsciamente ammantato di pietismo, a farci raccogliere un animale, a rinchiuderlo in un recinto o anche a portarlo in casa per colmare le carenze affettive che ci affliggono, nell'erronea convinzione che a renderlo felice basti un po' di cibo. Gli animali più vicini — e il cane in particolare — hanno bisogno soprattutto della presenza dell'uomo, del quale riconoscono l'autorità e al quale vogliono donare la loro fedeltà. Se non siamo in grado di sobbarcarci gli oneri affettivi e di altra natura che un animale necessariamente comporta, è meglio lasciarlo al suo destino, che potrebbe anche offrirgli una sistemazione migliore. Comunque è sempre meglio lasciarlo vivere libero che. infelice, anche se la sua vita dovesse durare soltanto lo spazio di un mattino. Bruno Ghibaudi

Persone citate: Casi, Luciana Marvaldi

Luoghi citati: Imperia, Italia, Roma