Bistecche: + 700 lire al Kg come si potrà sostituirle? di Emilio Pucci

Bistecche: + 700 lire al Kg come si potrà sostituirle? Possibile un aumento dell'Iva fino al 30% Bistecche: + 700 lire al Kg come si potrà sostituirle? Anche per le carni "alternative" (suini, ovini, ecc.) la nostra produzione non è sufficiente a coprire il fabbisogno - Il passivo della zootecnia vicino ai 2000 miliardi Roma. 5 settembre. La bistecca è da tempo sul banco degli accusati, colpevole, assieme al petrolio, di provocare gravi squilibri nei conti della nostra bilancia commerciale. Le cifre in proposito sono eloquen-j ti: per importare carni macellate e bovini vivi spendiamo sui 5 miliardi di lire al giorno; il deficit della zootecnia «viaggia» perciò a una velocità vicina ai 2000 miliardi l'anno, un costo che l'economia italiana non può assolutamente sopportare, pena il vivere in uno stato di perenne depressione. Non c'è quindi via di scampo: in attesa del più volte annunciato «piano verde», capace di ridare nel giro di qualche anno vitalità e autosufficienza alla nostra agricoltura, bisogna nel frattempo contenere ulteriormente il consumo di carne bovina. Il problema è attualmente allo studio degli esperti del ministero dell'Agricoltura e la soluzione prescelta sembra essere quella più semplice e in fondo più efficace: un aumento «secco» dell'Iva sul prodotto, dal 18 al 24 se non al 30 per cento. Con la tassa portata al 24 per cento, la massaia verrebbe a pagare la fettina circa 300 lire in più al chilo; con l'Iva al 30 per cento, l'esborso maggiore sarebbe di 600-700 lire al chilo. In ogni caso di tratterebbe di rincari tali (con la vitella tra le 7 e 8 mila lire il chilo) da provocare automaticamente un razionamento della carne bovina, senza ricorrere a complicati tesseramenti o a chiusure periodiche delle macellerie. Del resto, è da ricordare che la manovra fiscale del luglio 1974 (Iva dal 6 a] 18 per cento) ha già provocato una contrazione media dei consumi pari al 10 per cento, con punte del 30-35 per cento fra i ceti meno abbienti. Addio bistecca, dunque, o quanto meno cibo sempre più raro sulle nostre mense; ma nella dieta alimentare la carne bovina non è un prodotto facilmente sopprimibile: c'è quindi la necessità di sostituirla con carni alternative meno costose dalle identiche qualità e quantità proteiche. Le possibilità non mancano e da diversi mesi sui muri delle città e sulle pagine dei giornali appaiono variopinti manifesti in cui tutto un campionario di bestie — dai polli ai pesci, dai tacchini ai maiali, dagli altri volatili ai conigli e via dicendo — invitano gli italiani a « pranzare con loro », per scoprire anche una cucina gastronomicamente più varia, non limitata alla sola fettina. Di rincalzo, nei giorni scorsi, l'associazione italiana degli allevatori (Aia) ha lanciato la proposta della « distribuzione articolata delle carni», con la vendita a giorni alterni nelle macellerie di carni bovine e di altre specie di animali: per esempio, lunedì e martedì, braciola di maiale; mercoledì pollo; giovedì, coniglio; venerdì e sabato, vitella. Naturalmente le stesse regole dovrebbero valere per caserme, mense aziendali e ristoranti. L'iniziativa, poi, potrebbe completare quella « educazione alimentare » del tutto assente negli Anni 60, quando potevano tranquillamente circolare assurde dicerie, come quella dell'impotenza provocata dalla carne del pollo. Fin qui nessuna obiezione, ma i problemi saltano fuori al momento di verificare gli effettivi vantaggi che le carni alternative portano nelle tasche dei consumatori e soprattutto ai nostri conti con l'estero. La risposta, salvo qualche eccezione (come la produzione avicola, eccedente di 200 mila quintali) è negativa. Non sembra, infatti, che i nuovi animali con cui l'italiano dovrebbe pranzare più spesso siano per ora in grado di aiutarci a riequilibrare la bilancia alimentare. Se per il consumo di carni bovine dipendiamo dall'estero ormai per il 50 per cento dei nostri consumi, per i suini siamo costretti ad importare il 30 per cento del fabbisogno attuale; nel settore ovino siamo addirit¬ tura meno «autosufficienti» che per i bovini, riuscendo con la produzione italiana a coprire solo il 48 per cento dei consumi; deficitaria per 400 mila quintali anche la produzione di conigli, nonostante la prolificità della razza. «La produzione zootecnica italiana — osservano sconsolatamente al ministero dell'Agricoltura — è una coperta troppo corta per un corpo cresciuto in fretta: se copriamo la testa lasciamo scoperti i piedi, se copriamo i piedi lasciamo scoperta la testa». In altre parole, al consumo più consistente di carni alternative non ha corrisposto finora un parallelo rafforzamento della produzione interna. Di conseguenza, mangiare più carne di maiale o di coniglio significa spostare il deficit e le conseguenti importazioni dal settore delle carni bovine a quello degli altri tipi di carne. La maggiore richiesta di questi prodotti, poi, provoca un automatico rialzo nei prezzi di vendita, tale da rendere quasi competitiva la bistecca che, tutto sommato, presenta il vantaggio di una preparazione culinaria non troppo laboriosa. Un discorso a parte merita il settore dei pesci. Se le sogliole, le spigole, le orate, le mazzancolle costano ormai quanto la carne bovina, al controllo i prezzi delle trote e del pesce «azzurro» (sgombri, sardine, alici, eccetera) sono assolutamente convenienti, non superando in nessun caso le 1000-1200 lire al chilo. Eppure questa valida e conveniente (anche dal punto di vista dietetico) alternativa alimentare è pressoché ignorata dalla maggioranza dei consumatori. Diversi i motivi, fra i quali una scarsa dimestichezza delle massaie a «tratiare» il pesce e punti-vendita aperti soltanto due o tre giorni la settimana. Intensificare a questo punto la «campagna educativa» sui pregi del pesce «azzurro» non sarebbe poi un gran male. Emilio Pucci

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