Scelta e destino

Scelta e destino LEGGENDO GIORGIO AMENDOLA Scelta e destino Un giorno, a Napoli, nei primi mesi del '44, il mio amico socialista Oreste Lizzadri, che tutti chiamavano ancora Longobardi, mi invitò a colazione in una trattoria di via Incoronata, traversa di via Medina presso piazza Municipio. Mi aveva avvertito solennemente: sarei stato presentato a Ercoli, che tutti chiamavano già Togliatti, e che era appena arrivato in Italia. Ingenuamente, mi aspettavo una compagnia di almeno quattro o cinque persone. Invece, quando entrai nella piccola e affollata trattoria, trovai loro due, Togliatti e Lizzadri, già seduti, quasi nascosti dietro un pilastro, e c'era un solo terzo posto: quello per me. Togliatti, sotto la giacca di lana marron, aveva un grosso maglione grigio scuro, a girocollo. Probabilmente, aveva fatto così il viaggio in aereo da Mosca. Come accadeva a Napoli in quei mesi di formidabile confusione, il servizio fu lentissimo. Credo che restammo a tavola due ore e mezzo. Tuttavia, paradossalmente, quella colazione è per me indimenticabile soltanto perché, oltre le poche cose che ho già detto, non ho niente altro da ricordare. Non udii la voce di Togliatti. Conversò a mala pena con Lizzadri, e mormorando a labbra strette, così che non riuscivo a capirlo. A me, non rivolse mai la parola, mai, neppure una volta, neppure per dirmi: scusi, il sale. Perché? Chiaro. Il mio aspetto, non altro, non era garbato a Togliatti. Non altro: infatti, non osando parlargli per primo, non aprii bocca. O, forse, non voleva che i suoi discorsi fossero uditi dalla gente ai tavolini intorno, che erano vicinissimi? Ma, in quel caso, che cosa gli costava darmi appuntamento in altro luogo? No, no, malgrado tutto il bene di me che Lizzadri doveva avergli detto, lui, vedendomi, aveva diffidato: oppure, più semplicemente, e malgrado fossi torinese, non gli interessavo. Adesso, a distanza di tanti anni, dopo aver letto i due libri di Giorgio Amendola Lettere a Milano e Una scelta di vita, mi domando: la mia scelta di vita sarebbe stata diversa se il destino avesse voluto che in quell'epoca mi fossi trovato a Roma o nel Nord Italia e avessi incontrato Amendola invece di Togliatti? Certe cose, come disse Mao a Pompidou, non si decidono per volontà personale: sono gli avvenimenti, sono le circostanze che decidono. Amendola è appena un po' più giovane di me. Nel '44 lui aveva 37 anni e io 38. Se lo avessi incontrato, di quante cose avremmo parlato immediatamente, irresistibilmente: sarebbe stato un dialogo diluviarne, anche nell'improbabile ipotesi che avessimo soltanto sfiorato la politica! Una scelta eli vita è la sua autobiografia fino al 1929, quando si iscrisse al partito comunista. Quanti nomi ci trovo, di amici e di conoscenze comuni, e quanti giudizi, quante antipatie e simpatie, quanti affetti e sdegni che coincidono con i miei! L'elenco sarebbe interminabile. Scelgo a caso, a memoria: Croce, Semenov, Spadini, Prezzolini, Pirandello, Irene di Robilant, Albertini, Garosci, Giuliana Benzoni, Ansaldo, Caccioppoli... ma soprattutto Elena Croce, che quasi dalla sua infanzia è mia grande amica, e Francesco Flora, uno degli uomini più intelligenti e più generosi che conobbi: nel decennio tra il '25 e il '35, Flora aveva personalmente aiutato e beneficato sia Amendola sia me: me, imprestandomi una non indifferente somma di denaro; Amendola, trovandogli un impiego a Napoli, nella libreria antiquaria Johannowski. L'elenco dei nomi si raddoppia nelle Lettere a Milano: Velio Spano, Novello Papafava, il contrabbassista (non violoncellista) Boni, Paone, Amidei, Noventa, Negarville, Manlio Brosio, Cigarini, Corrado Bonfantini, Rodolfo Morandi, Carlo Levi... Tutti e due i libri, li ho letti con trasporto: di più la Scelta, forse perché più splendido letterariamente. Sulle Lettere, Derò, non ho dubbi, e sulla Scelta ne ho avuto uno mentre leggevo: oh! un dubbio accademico, a lettura ultimata credo averlo risolto. Mentre leggevo, non accettavo proprio il titolo. Una scelta di vita? Quale scelta? Come Franklin Delano Roosevelt nipote di Theodore, cosi Giorgio Amendola figlio di Giovanni è nato politico. Non si tratta soltanto di sangue. Nel suo caso, i rapporti tra figlio e padre; l'amore e l'ammirazione, l'amicizia e la confidenza che Giorgio ebbe con Giovanni, e che racconta cosi dsplpsgevtfpcvmqssfsilprpndaac distesamente e così bene; fosse soltanto la biblioteca che il padre gli lasciò, quella lista di libri a pag. 152 che rimarrà preziosa per gli studiosi di storia italiana; i fatti che seguirono nella sua vita prima e dopo la decisione di iscriversi al partito comunista: tutto, insomma, prova che la sua forma mentis era fatalmente politica. Si può parlare di vocazione, addirittura di istinto. 1927: « Sentivo che non dovevo rompere i rapporti con i miei coetanei, neanche con quelli che non erano antifascisti »: il corsivo è mio. « Ma se non debbo trovarmi con i fascisti, debbo isolarmi in casa?... Non dovevo chiudermi in casa e portare il lutto per la libertà perduta, attendendo passivamente di venire fuori a raccogliere, al momento opportuno, quella che chiamavano l'eredità di Giovanni Amendola. Dovevamo, noi giovani antifascisti, uscire, frequentare la gente, confonderci tra gli altri e conoscere gli altri, cercare insieme con loro di vivere una vita normale. E ciò non soltanto per poter meglio nascondere la nostra attività clandestina, ma per non perdere il contatto con la realtà, per non diventare, come cominciai a dire, dei fuorusciti all'interno, usciti fuori dalla realtà del paese ». Ma il titolo del libro, dirà certo Amendola leggendo questo articolo, non riguarda la politica in sé, riguarda il comunismo. Ebbene, no. In quei momenti, 1926-1929, per un vero uomo politico, per un uomo che aveva la vocazione della politica, e che aveva ardentemente sposato, come lui aveva sposato, il vero e profondo ideale di suo padre, non erano possibili alternative: non poteva concretamente non scegliere il comunismo. Non esisteva per lui altra via. 1929: «Non poteva trattarsi per me di una fedeltà formale... Se la strada seguita da mio padre per battere il fascismo si era conclusa con la sua sconfitta e con la sua morte, per raggiungere l'obbiettivo che egli aveva invano cercato di raggiungere io dovevo cercare una strada diversa, e seguire quella che mi sembrava essere la buona.... ». Curiosamente, per capire che Amendola, come non ha scelto di dedicarsi alla politica, così non ha scelto neanche di iscriversi al comunismo, basta questo episodio: « Una volta vidi uscire dallo studio di Croce un vecchio professore liberale, che mi sembrò turbato e umiliato. Mi permisi di chiedere a Croce che cosa gli fosse capitato per ridurlo in quelle condizioni. Croce mi disse che era preoccupato perché suo figlio era stato arrestato mentre cercava di passare illegalmente la frontiera in sci, per prendere contatto in una località invernale francese con alcuni antifascisti emigrati. Il professore aveva chiesto udienza a Mussolini per ottenere la liberazione del figlio. Mussolini lo aveva ricevuto, lo aveva rassicurato sulla sorte del figlio (che sa¬ rebbe stato infatti presto liberato), ma aveva voluto aggiungere: — In questo stesso momento vi sono in carcere centinaia di giovani operai e braccianti comunisti che non chiedono nessuna grazia e per i quali non si muove nessun professore universitario — ». Come volete che Amendola facesse un'altra scelta? Solo il comunismo gli dava affidamento. Nessuna scelta, dunque, anche in questo senso. Ma nell'errore, soleva dire Croce, ancora il Croce, c'è sempre una parte di vero. E una parte di vero l'ho scoperta anche qui. Anche il titolo di Amendola è giusto. Non solo per i dubbi forse angosciosi che Amendola ebbe a superare prima di decidersi al grande passo; ma perché si tratta del titolo di un libro di un uomo che è, innanzi tutto e malgrado tutto, un uomo politico democratico. Il Politico Democratico, non meno del Santo, crede nel libero arbitrio per sé e per gli altri. Crede nella possibilità di scegliere e crede nella forza della persuasione. Cerca dunque, in ogni caso, di persuadere gli altri della possibilità che hanno, a loro volta, di scegliere un bene invece di un male. Come volete che Amendola, tanto più che restava in buonissima fede anche a proposito di se stesso, rinunciasse, nel titolo del suo libro, a persuadere il pubblico dei suoi lettori del fatto che la sua fu una scelta volontaria e una scelta giusta? Il volontarismo, infatti, è al centro di tutti i pensieri di Amendola: pensieri filosofici, morali, sociali, politici, 1925, quando lui aveva diciott'anni: « Lessi in quelle settimane gli scritti filosofici di mio padre e soprattutto La volontà è il bene, la capacità di determinare con la propria volontà il proprio destino ». 1928: « In quel periodo avevo assimilato l'insegnamento di Gobetti, essere il proletariato la classe portatrice dell'avvenire, la reale protagonista di un'autentica rivoluzione liberale. Ma occorreva liberare il movimento operaio dalle deformazioni deterministiche e dare al marxismo una interpretazione volontaristica. Lessi in quel periodo i saggi di Rodolfo Mondolfo Sulle orme di Marx, che mi fornirono altri elementi per giungere ad una nuova interpretazione del socialismo ». Infine, a Milano, nel 1944: «... già allora cominciai ad essere criticato per il mio preteso empirismo, perché ritenevo che la realtà, così diversa dalle vecchie prospettive, ci avrebbe obbligato a dare un'interpretazione originale dei testi, senza farci imprigionare dalla lettera. Considerare il marxismo non come uno schema da applicare in situazioni diverse, ma come un canone per interpretare e trasformare la realtà, come una guida per l'azione, era l'unica soluzione valida ». Interpretare i testi, trasformare la realtà, agire: insomma l'importanza primaria della volontà. Mario Soldati

Luoghi citati: Italia, Milano, Mosca, Napoli, Nord Italia, Roma