Identikit europeo

Identikit europeo DECADENZA IRRIMEDIABILE? Identikit europeo A sentir Jemolo, tutti ormai la prenderebbero a schiaffi, questa povera Europa: non i suoi avversari soltanto, ma gli stessi suoi figli, scevri dell'antica arroganza, c afflitti da un diffuso complesso d'inferiorità. Rare sarebbero più le occasioni in cui ci si azzardi a farle una carezza, alla vecchia signora, a ricordarne le glorie passate, a esternarle il proprio affetto e la propria fedeltà. Un'occasione si presenta questa settimana a Torino, con il convegno organizzato dal « Movimento per l'integrazione universitaria europea », in collegamento con la Cee, sul tema dell'integrazione europea. In due giornate di intensi dibattiti il convegno, cui è prevista la partecipazione di una cinquantina di docenti universitari dei nove Paesi della Comunità, si propone di stabilire le linee programmatiche di tale integrazione e di individuare gli strumenti più adatti per la sua attuazione. Bellissimo il tema, e degno di ogni miglior augurio l'incontro, la cui riuscita mi sembra però legata a una condizione preliminare: che ci s'intenda su cosa, e a qual fine, si vuole « integrare », che si stabilisca, in altre parole, un identikit dell'Europa e un inventario del suo patrimonio, o per lo meno di quella parte di esso che si ritiene desiderabile salvaguardare. E' appunto questo l'argomento della relazione di base, redatta dal belga professor Leo Moulin, dal titolo Identità europea e sistema di valori, relazione che costituisce un vibrante tributo alla nostra patria comune, ed insieme un invito alla ricognizione di quell'insieme di beni che, ci piaccia o non ci piaccia, formano la nostra eredità (e il nostro destino) di europei. Alla domanda preliminare — che cosa è l'Europa? — il relatore propone di rispondere con una serie di « criteri d'identificazione », che vanno dall'elaborazione del metodo scientifico e dalla superiorità tecnologica ad un complesso di principi e di istituzioni — politici, giuridici, morali — che distinguerebbero nettamente il destino europeo da quello delle altre parti del globo. Come già Montesquieu, egli ravvisa il carattere fondamentale della società europea nell'apertura e nella diversificazione — nel pluralismo. Ma quest'apertura, questa diversificazione, questo pluralismo, non sarebbero soltanto il risultato di circostanze geografiche e storiche, bensì anche di un « modo di essere », di una fondamentale disposizione spirituale e mentale. E' la tesi già sostenuta or son trent'anni da Federico Chabod nelle sue splendide lezioni sull'idea d'Europa: i valori distintivi dell'Europa sono valori di cultura, generati da una stessa matrice, e maturati e accumulati nei secoli in un comune patrimonio di arti, di scienze, di leggi e di istituzioni civili e religiose. Sennonché, soggiunge il relatore (e l'osservazione è di capitale importanza per lo scopo a cui mira), questi valori hanno anche un'ulteriore caratteristica del tutto singolare: quella di non esser rimasti specifici e particolari alla sola Europa, ma di essersi rivelati suscettibili di ricezione e di accoglimento anche da parte di altri popoli: « Fenomeno unico nella storia, che fa della civiltà europea la prima e la sola civiltà che si sia vista adottata, spontaneamente, da lutti i popoli della terra ». Se sia stata veramente prima e unica in questo senso la civiltà europea, e se sia stata proprio spontanea la sua accettazione da parte degli altri popoli, sono punti che si potranno discutere e su cui non tutti potranno esser d'accordo. Ma quello che interessa qui è che alla constatazione (esatta) della diffusione, compiuta o in atto, di questa civiltà, si riallaccia la professione di fede nell'Europa con cui Moulin conchiude la sua relazione. Professione di fede, che si articola in una serie di esortazioni ai « cittadini d'Europa »: esortazione a partecipare come soggetti attivi al processo di auto-europeizzazione degli altri popoli; a metter a loro disposizione la propria antica esperienza di successi e di insuccessi; a non rinunciare ai valori fondamentali nell'impazienza di una riuscita immediata; a non esagerare nei mea culpa abbandonandosi al disfattismo; a ricercare un giusto equilibrio fra unità e particolarità nella costruzione dell'Europa futura; infine a rendersi conto che è più importante definire l'Europa in termini di cultura che in termini di potenza economica o militare. Una predica al vento? un utlfectdsJfrudgdqgd ingenuo ottimismo? una nobile utopia? Mi sono posto ripetutamente queste domande nel leggere il documento che offrirà lo spunto al convegno europeista torinese. Il fatto che quel documento mi capitasse fra le mani pochi giorni dopo la pubblicazione sul nostro giornale dell'articolo di Jemolo sull'Europa « schiaffeggiata » mi è parsa un'incoraggiante coincidenza: come se una carezza potesse compensar degli schiaffi, un atto di fede guarire dalla disperazione! Ma confesso che le parole di Jemolo mi hanno turbato profondamente, per venire da Lui anzitutto, e per vederlo tranquillamente prospettare (come già la prospettava Mario Soldati nel suo fantaromanzo Lo Smeraldo'.) una possibile, nuova dominazione araba in Europa. Ma più ancora di una simile prospettiva, mi ha turbato di veder Jemolo accettare, con sereno pessimismo, l'idea di un irreparabile « declino » dell'Europa: un'idea che non ha nulla di nuovo se già la prospettavano mezzo secolo fa scrittori come Spengler, e dopo di lui non pochi altri profeti di sventura — idea che ha potuto parer realizzarsi colle tirannidi e le guerre che hanno insanguinato l'Europa, ma che ha pur trovato una smentita nella prodigiosa ripresa di questa all'indomani di quelle sventure. Decadenza dell'Europa, perché ha dovuto piegarsi al vo¬ lere degli Stati produttori di petrolio, perché non può più dominare estese colonie, perché ha ceduto alle lusinghe di un folle nazionalismo? Non in questi flussi e riflussi del potere sembra a me che si debba ricercare argomenti a conferma di un declino, di una decadenza, bensì semmai nella perdita di fiducia — in una perdita di fiducia nelle proprie ragioni e nei propri compiti simile a quella che Lidia Storoni ha così efficacemente descritto su queste colonne come caratteristica saliente del crollo dell'impero romano. Ed ecco che, per un'altra singolare coincidenza, proprio pochi giorni dopo la conclusione di quei brillanti articoli, la nostra televisione ha iniziato la trasmissione delle stupende conferenze del critico d'arte inglese Kenneth Clark sulla « civiltà »: e la prima di queste conferenze, iniziando il racconto appunto dalla fine del mondo romano, recava un titolo significativo: « Per il rotto della cuffia ». Proprio qui vorrei trovar la risposta da offrire all'amico Jemolo: per un rotto della cuffia l'Europa è passata già altre volte, e le prove furon anche peggiori delle attuali. Ma da quella prima rottura — lo riconosce anche Jemolo — è uscita un'Europa nuova e diversa, forse anche migliore di quella romana. Non potrebbe esser così anche questa volta, solo che lo vogliamo? A. Passerin d'Entrèves

Persone citate: Federico Chabod, Kenneth Clark, Leo Moulin, Lidia Storoni, Mario Soldati, Moulin, Passerin, Spengler