Mosca impose a Est la sua legge di Paolo Garimberti

Mosca impose a Est la sua legge Mosca impose a Est la sua legge Non riuscì però a ristabilire l'omogeneità stalinista - In quella crisi stanno le radici dell' " euro-comunismo " L'autunno ungherese del 1956 cominciò, in realtà, in febbraio, a Mosca, non a Budapest. Il rapporto segreto di Nikita Kruscev al XX Congresso del pcus e un articolo della Pravda su Béla Kun furono i prodromi dell'anelito di libertà e di democrazia, che sconvolse l'Ungheria, provocò la prima applicazione della dottrina della sovranità limitata da parte dell'Unione Sovietica e fece vacillare la fede di migliaia di comunisti in Europa. Il rapporto krusceviano sulla nefanda tirannide di Stalin (letto a porte chiuse nella notte tra il 24 e il 25 febbraio) fu conosciuto, nella sua interezza, soltanto alcuni mesi più tardi. Ma già il 27 marzo Jerzy Morawski, segretario del pc polacco, ne pubblicò su Trybuna Ludu un ampio riassunto e, quasi immediatamente, le rivelazioni di Kruscev provocarono reazioni a catena nelle dittature comuniste dell'Europa orientale. Il primo ministro bulgaro Chervenko, accusato di «culto della personalità», fu costretto a dimettersi, mentre venivano riabilitate le vittime del processo a Kostov. Centinaia di prigionieri politici furono liberati in Polonia (compreso Wladyslaw Gomulka, accusato un anno prima di «titoismo»), in Bulgaria, in Cecoslovacchia (tra gli altri, Artur London) e nella stessa Ungheria. Ma per gli ungheresi l'articolo della Pravda fu un segnale ancor più preciso del rapporto krusceviano. Il 20 febbraio, il giornale del pcus rievocò il settantesimo anniversario della nascita di Béla Kun, fondatore del pc ungherese, intimo di Lenin, travolto, come tanti altri esuli a Mosca, dalle folli purghe del 1937: da allora, il suo nome era stato ignorato dalla pubblicistica sovietica. Per Matyas Bàkosi, governatore stalinista della provincia ungherese, quell'articolo suonò come una lettera di licenziamento. Tentò di salvarsi riabilitando Lazio Bajk, l'ex ministro degli Interni e degli Esteri dei primi governi comunisti ungheresi, impiccato come agente titoista. Ma, poi, ebbe un rigurgito di tirannide poliziesca, e fece arrestare gli intellettuali che, insieme con Julia Rajk, avevano denunciato, in giugno, la farsa istruttoria del processo a Rajk. Per Ràkosi il gesto di forza fu la fine. Lo sostituì Erno Gero, un altro stalinista. Ma, ormai, il termostato, che regolava le tensioni sotterranee dell'Ungheria, era sul punto di saltare. Con il rapporto di Kruscev e l'articolo della Pravda su Béla Kun cominciò anche l'anno più drammatico per il comunismo italiano ed europeo, « un anno lunghissimo — ha detto Gian Carlo Pajetta in un'intervista all'espresso — e pieno d'avvenimenti che s'accavallavano tra loro, di contraddizioni, di reazioni emotive, di polemiche, ma anche di lavoro per un partito capace di guardare e di andare avanti: un anno doloroso ». Le rivelazioni krusceviane aprirono un dibattito lacerante nel pei su quella che Paolo Spriano definisce « la richiesta d'un modo nuovo d'intendere i rapporti tra passato e presente». Togliatti ebbe parole di disprezzo per « gli sciocchi e i venduti », che «latrano e continueranno a latrare, ma di essi la storia non terrà conto ». Però, su Nuovi Argomenti, fu costretto a rispondere a «Nove domande sullo stalinismo» e parlò di «errori» di Stalin, di «elementi di tirannide», non senza, tuttavia, criticare Kruscev per aver taciuto «i meriti di Stalin». In vista del congresso di dicembre a Roma, Togliatti preparò una dichiarazione programmatica, che conteneva un vago accenno ad un possibile «policentrismo» del movimento comunista e rappresentava, nel suo insieme, un tentativo d'elaborazione teorica della via italiana al socialismo. Ma la rivolta popolare di Poznan, in Polonia (28-30 giugno), brutalmente domata dalla polizia, e soprattutto i fatti d'Ungheria interruppero quel cauto processo di revisionismo critico. L'insurrezione ungherese scoppiò il 23 ottobre (ma, già il 6 ottobre, per i funerali postumi di Rajk, v'era stata una grande manifestazione d'operai e studenti). La polizia politica sparò sui dimostranti, ma venne travolta e l'esercito, chiamato a rinforzo, dette le proprie armi alla folla. Le truppe sovietiche di stanza in Ungheria intervennero il 24 ottobre, ma il 28 ottobre, dopo feroci combattimenti nelle strade, furono ritirate su consiglio di Anastas Mikojan e Michail Suslov, giunti da Mosca per un sopralluogo. A Imre Nagy — vecchio comunista democratico, già primo ministro dal 1953 al 1955 contro la volontà di Ràkosi —, tornato alla testa del governo, gli insorti chiedevano la liberazione del cardinale Mindszenty, riforme economiche, libere elezioni pluripartitiche, libertà di stampa. Ma, dopo il ritiro delle truppe sovietiche, reclamarono soprattutto l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia. Nagy accolse la richiesta e annunciò la neutralità dell'Ungheria il 1° novembre, chiedendo l'intervento dell'Orni appena ebbe notizia di movimenti di truppe sovietiche nella piana ungherese. Mosca, ormai, aveva già deciso l'invasione. Il 4 novembre, mentre Janos Kadar formava un governo fantoccio a Szolnok (a una settantina di chilometri da Budapest), mille carri armati e circa dieci divisioni di fanteria sovietiche mossero contro gli insorti, frantumandone la resistenza in una settimana. Gli annunci del comando sovietico a Budapest anticiparono, sinteticamente, l'articolo di novemila parole con il quale, dodici anni dopo, la Pravda doveva giustificare l'intervento in Cecoslovacchia e teorizzare la dottrina della sovranità limitata: le forze sovietiche erano in Ungheria « non da conqui¬ statori, ma da fratelli » per « schiacciare la controrivoluzione e i criminali reazionari » e « prevenire l'instaurazione d'una dittatura fascista ». La breve rivolta di Poznan e l'insurrezione d'Ungheria del 1956 indicarono ai dirigenti sovietici che i metodi stalinisti di controllo e di governo dell'Europa orientale non erano più applicabili (Tito lo aveva già detto allo stesso Stalin nel 1948, ma ne fu scomunicato). Pur mantenendo fermo il primato militare e ideologico dell'Urss, i successori di Stalin concessero all'Europa orientale una maggiore libertà di sviluppo interno, accettando perfino qualche cauta forma di deviazionismo economico, ponendo però limiti invalicabili a tale libertà (appunto, una sovranità limitata). E, nel 1968, si ebbe la netta e drammatica percezione di quali fossero tali lìmiti: « L'esperimento di Dubcek minacciava di scatenare un contagio democratico, che avrebbe potuto sopraffare l'Unione Sovietica e il resto dell'Europa comunista », ha scritto il New York Times, commentando la gaffe di Gerald Ford nel dibattito televisivo con Jimmy Carter. Nei dirigenti comunisti europei e italiani, soprattutto, Poznan e l'Ungheria aprirono, senza che essi ne aves¬ sero al momento coscienza, un processo di maturazione, che, attraverso la formula togliattiana dell'« unità nella diversità », doveva portare, dodici anni dopo, al dissenso sulla Cecoslovacchia e, quasi vent'anni dopo, al fenomeno dell'eurocomunismo. Gli eventi del '56 non furono una folgorazione. Anzi, la reazione del pei, del pcf e degli altri maggiori partiti occidentali fu durissima, addirittura stalinista. L'Unità scrisse che quella ungherese era una « controrivoluzione, voluta e alimentata da americani e fascisti ». Il Daily Worker, giornale dei comunisti inglesi, si rifiutò di pubblicare i dispacci troppo obiettivi del suo inviato speciale a Budapest Peter Fryer, che dette le dimissioni dal partito. In Italia, coloro che dissentivano dalla linea del partito furono ammoniti, scomunicati, espulsi. Alcuni, come Di Vittorio, furono costretti a un'umiliante autocritica. Verso quelli che se ne andavano, o minacciavano d'andarsene, il partito tentava una estenuante operazione di recupero e rieducazione (fu il caso di Antonio Giolitti). Tutto ciò non impedì che le voci dei dissidenti si levassero altissime all'VIII congresso del pei, in dicembre all'Eur. Ma furono una minoranza e fu il congresso della restaurazione cominformista, senza accenni di sorta al «policentrismo» e alla via italiana al socialismo, cui Togliatti aveva pensato dopo il rapporto segreto di Kruscev sui crimini di Stalin. Ancora oggi, il pei ritiene che « quel doloroso intervento » fosse necessario. Dato « il tipo d'equilibrio mondiale che si era stabilito dopo la guerra, se si fossero consentiti cedimenti all'interno di uno dei due blocchi contrapposti, ci sarebbe stato il rischio di un'altra guerra», ha dichiarato Luigi Longo in un'intervista alla Repubblica (12 ottobre 1973). E Gian Carlo Pajetta, nella citata intervista all'Espresso (3 ottobre), ha ripetuto che «nel '56 erano all'opera anche dei controrivoluzionari », mentre «nel '68 a Praga non c'erano, secondo noi, sintomi di pericolo, ma prove della vitalità del socialismo ». Tuttavia, nonostante la dura reazione, la scomunica dei dissidenti, il ritomo a uno spirito cominformista, il pei recepì — forse senza avvertirlo — il germe della maturazione: secondo Paolo Spriano, « nonostante le posizioni conservatrici assunte nel '56, il pei non ha ignorato la lezione. E, a poco a poco, ha recuperato tutti i valori della democrazia politica ». Paolo Garimberti