Una Biennale "d'autore,,

Una Biennale "d'autore,, SI CHIUDE LA DISCUSSA MANIFESTAZIONE VENEZIANA Una Biennale "d'autore,, Pur aprendosi sempre più alla partecipazione del pubblico e di gruppi svariati, non è riuscita a negare la figura dell'animatore, Vittorio Gregotti - Una "antologica" dove spiccano gli ambienti degli architetti - "Dibattito meno tedioso del consueto" (Nostro servizio particolare) Venezia, ottobre. Nebbia, tanta nebbia. Venezia è soffocata nel color perla. La Salute, da San Marco, bianco su bianco, si vede appena. Si sente l'urlo d'una sirena, e l'enorme sagoma d'una nave tedesca sparisce verso il canale della Giudecca: la bandiera nera, rossa e gialla si ritaglia imprevedibilmente nitida sul color bambagia. Il tutto sembra un'invenzione, l'ultima in questi giorni di chiusura, di un gualche artista, di un gualche gruppo, che voglia, in chiave al tema della Biennale « L'ambiente » e « Il sociale », sottolineare la condizione di critica e ambigua « utilizzabilità » da cui una città come Venezia è investita. La questione è dibattuta: e Venezia una città museo o la punta en artiste di un iceberg industriale? La targhetta Simboli a parte, nonostante la nebbia e un vago appiccicaticcio di scirocco, è ancora un salire e scendere dai vaporetti, da San Giorgio alla Giudecca, dalle Zattere ai Giardini, a Ca' Pesaro: la gente, cataloghi, ciclostilati in mano, maglioni, jeans, stivali ai piedi, ma anche tanti bravi borghesi in flanella, divora quel che Carlo Ripa di Meana e Vittorio Gregotti hanno offerto dislocandolo ovunque per l'area urbana. Tanta gente: sono tanti quelli che portano sul bavero della giacca, sul risvolto del giubbotto (dico per dire), la targhetta di « fruitori d'arte e cultura », apprestata per loro da altrettanti operanti « operatori di cultura ». Non che il vecchio turismo sia scomparso: ma sono gli ultimi giorni di Biennale, e molti sono arrivati qui per non perdere l'estrema chance. La B76 è stata un enorme gadget da prendere e lasciare come si vuole, da attraversare in tanti molteplici sensi; lo si è saputo; lo si è letto anche sui giornali stranieri; quindi, tanto concorso di pubblico è spiegabile. E' possibile percorrere l'in- tero « laboratorio d'arte » senza itinerari prestabiliti: cominciare da squisitezze forse troppo rastremate come « Il razionalismo e l'architettura in Italia durante il fascismo », che fa mostra di sé nella ex-chiesa di San Lorenzo fa un passo dalla chiesetta di San Giorgio agli Schiavoni, dove c'è sempre il sublime Carpaccio che dipinse un ambiente-da-meditazione-rinascimental-collettiva da raccomandare ai più spericolati « ambientisti » di oggi). Oppure si può cominciare dal chiostro di San Giorgio Maggiore, fondazione Cini, dove sono allineate le più belle fotografìe di Man Ray. Tanto l'architettura fascista, quanto Man Ray non allontanano dal tema che la B76 sì è dato. Sotto la parola « ambiente », accanto alla parola « sociale », si dipana quel gran discorso che guarda all'arte non più come all'emblema per eccellenza d'una concezione elitaria della cultura, ma che la considera un evento funzionale, magari determinante, nella gran dialettica fra uomo e realtà, vita e mondo. L'architettura fascista addita un punto-limite di tale funzionalità; appunto stravolta, degradata in retorica e coercizione. Man Ray realizza un limite affatto diverso: l'artista che non si nega, con il proprio bagaglio di strepitosa sensibilità e intuizione, al riscatto d'uno strumento facilmente incline al Kitsch, quale è la macchina fotografica. Chi può dimenticarle le foto - ritratto di Breton, Picasso, Gertrude Stein, Satie, Brancusi, Dali?... O certi anonimi visi di donna lievemente solarizzati? O il travestito che indossa lo slip, o la marchesa Casati in posa contro lo sfondo dipinto di due cavalli imbizzarriti? Partendo da qualunque punto si voglia, arrivando al cuore della «cosa», fisicamente annidato nei giardini di Sant'Elena, luogo deputato della vecchia Biennale, dove sono le mostre de «L'ambiente», di «Spagna, Avanguardia Artistica e Realtà Sociale, 1936-1976» e di «Ambiente / Arte», ci si accorge con facilità che, nel bello e nel brutto, nel riuscito e nel non riuscito, l'esposizione è intelaiata con semplicità su un concetto che considera creatività e ambiente in rapporti fra loro contraddittori, conflittuali, spesso non codificabili, secondo un'interpretazione forse anche allegra del detto di Marx per cui il mondo bisogna «cambiarlo» piuttosto che «interpretarlo». Design e altro Questo concetto è tanto linearmente ,-ìbadìto, padiglione per padiglione, mostra per mostra, tema per tema, da essere obbligati a concludere che è questa una Biennale d'autore. Nel momento in cui l'istituto veneziano più si è aperto alla partecipazione del pubblico e delle proposte di gruppi svariati (vedi il padiglione Italia, tutto una giostra di audiovisivi a stento però seguitoli), e di tanti sìngoli artisti, non è riuscito a negare (e perché avrebbe dovuto?) la figura dell'animatore, e dell'«autore»: nel caso, Vittorio Gregotti. E Gregotti ha disegnato una mappa dove si incrociano design, urbanistica, architettura, arti visive: lasciando che il tutto si sovrapponesse a piacere, si cancellasse, persino si vanificasse con quella libertà e anche quella bizzarria che le cose dell'arte (tradizionalmente e non tradizionalmente detta tale) han¬ no nel mondo contemporaneo. Direi, insomma, che Gr egotti-autor e si è limitato a imprimere al gadget B76 il primo impulso: e poi tutto è andato da sé. L'operazione è di sicuro per più versi criticabile: credo però sia difficile contestare al marchingegno messo in moto la vitalità, una capacità di coinvolgimento che certe «antologiche» tradizionali non riescono più ad avere. Una Biennale di architetti: ma sì! gli ambienti sono sempre bellissimi, mattoni scartavetrati, intercapedini e massetti resi allo scheletro; il tutto, spesso, dipinto d'un riposante grigiorosa, la «grigiorosea nube» di memoria montaliana... ognuno, ovunque, trova quel che può divertirlo se non piacergli, con l'aggiunta di un tasso notevole di informazione. Ad esempio: i cinque designers situati ironicamente accanto alle «Attualità internazionali» (l'antologia d'obbligo, d'obbligo di legge, per una serie di artisti rubricati in ordine alfabetico e collocati ciascuno dentro una celletta tipo container Olivetti). I designers, vedi Richard Hess, adoperano l'arte in maiuscola per copertine di libri, dischi e settimanali; capita per converso a certi artisti di far uso dei mass-media al fine di esprimere «la bella intimità che tutto intona». Bell Beckley, un americano di trent'anni, sintonizza una masturbazione sulla tastiera di una macchina da scrivere (così dice). Richard Hess prende Magritte e con qualche ritocco gli fa illustrare un disco di Billie Holiday. Poi: ai Giardini di Sant'Elena, oltre agli splendidi Tapies ospitati nella sezione «Spagna Avanguardia Artistica ecc.», c'è un iperrealista fiammingo, Marcel Maeyer, che raccoglie con splendore l'eredità dei suoi classici, e per un suo «Negozio di parrucchiere» e un suo marciapiede con strisce pedonali («Passaggio zebrato») chissà quanti «realisti» nostrani hanno spasimato. Bisogna aggiungere che la triplice riga di sassi di Richard Long che ha invaso l'intero padiglione inglese è sorprendentemente poetica; altrettanto lo sono le foto d'un bianco e nero da xilografia del belga Filip Tas; altrettanto, ancora, la «Fermata del tram» dì Joseph Beuys che ti si è parata davanti all'ingresso del padiglione tedesco (la sala è un hangar abbandonato, intonaco che viene giù a scaglie, un mucchio di terriccio al centro, dietro una scultura svettante alla Giacometti). Tutto questo, e tante altre cose ancora hanno avuto il loro successo. Il presidente Ripa di Meana guarda le cose dal punto di vista del pubblico, degli osservatori stranieri e dice: «Ci avevano dato per spacciati. La contestazione prolungata aveva ingenerato sfiducia. Invece si sono accorti che siamo riusciti a far qualcosa, non solo per i giovani e per i freaks, ma anche per tutti coloro che non amano le manifestazioni controllate dall'alto o quelle manifestazioni che hanno la sapienza di piacere a tutti». Qual è il bersaglio implicitamente polemico di questa affermazione? «Mah, anche i festival dell'Unità sono ormai diretti rigorosamente dal centro. Noi abbiamo disegnato una proposta a rombo; e questa proposta ha dato la speranza a diverse persone che il dibattito culturale può assumere forme meno tediose del consueto. Sì, è vero: qui non ci si raccapezza su chi comanda; oppure, quando si dice che la linea è «progressista» si dice poco. Comunque, in mezzo a rischi infiniti, rischi politici dico, la nostra è un'ipotesi rovesciata rispetto a qualsiasi altra ipotesi di organizzazione culturale in Italia...». E per il futuro? «Abbiamo due impegni: due progetti di documentazione storico - critica, l'America degli Anni Cinquanta (Cage, Rauschenberg, il Black Mountain College); e di contro gli archivi sovietici dal '17 al '30, film, spartiti, design eccetera. E' una promessa ricevuta, e che speriamo venga mantenuta». Allora, auguri auguri, per un futuro gadget tutto informazione storica. Intanto è sera, e la B76 spegne nella nebbia le ultime lampade. Enzo Siciliano Venezia. Passeggiata d'autunno in piazza San Marco: è tempo d'acqua alta (Cameraphoto)