Ivrea: i giudici riuniti nella notte per la sentenza sull'orefice uccise

Ivrea: i giudici riuniti nella notte per la sentenza sull'orefice uccise I tre maggiori imputati rischiano la condanna all'ergastolo Ivrea: i giudici riuniti nella notte per la sentenza sull'orefice uccise La Corte d'Assise è entrata in camera di consiglio ieri sera alle 20 - Gli accusati, che avevano rifiutato di presenziare al processo, hanno voluto essere ricondotti in aula per il verdetto (Dal nostro inviato speciale) Ivrea, 14 ottobre. La Corte d'Assise di Ivrea, presieduta dal dottor Bracchi, è riunita da stasera alle 20 in camera di consiglio per emettere la sentenza contro i banditi che avevano ucciso, nel gennaio scorso, l'orefice Claudio Blessent nel corso di una rapina. L'aula del palazgo di giustizia è gremita di folla in attesa del verdetto; tre dei maggiori imputati rischiano la massima pena detentiva; per loro, infatti, il pubblico ministero, nella re¬ qcodscteesleaaCchl'IvnsiB quisitoria, aveva chiesto la condanna all'ergastolo. Gli imputati dell'uccisione di Claudio Blessent non finiscono di stupire: dopo la protesta di ieri, hanno chiesto di essere presenti, stasera, alla lettura della sentenza. Sono arrivati alle 20 e fanno subito alcune dichiarazioni. Pietro Cappello: «Vorrei sapere perché volete condannarmi all'ergastolo. Sono venuto a Ivrea per compiere una rapina, non per uccidere». Il presidente della Corte, dottor Bracchi: «Poteva restara in i aula e saprebbe cosa le abbiamo contestato. Il dibattimento adesso è chiuso». Cappello: «Voglio solo aggiungere che mio fratello non c'entra con la rapina». Nicodemo Avenoso: «Le armi le abbiamo rubate io e Nino Pira». Ugo Cappello: «Da nove mesi sono in carcere ma giuro di essere innocente». Mancano all'appello Salvatore Malivindi e Nino Pira, coerente fino in fondo nella sua contestazione e nel rifiuto di tornare in aula. La cronaca della giornata è presto fatta, una giornata completamente assorbita dalle arringhe difensive. Gli avvocati si battono con decisione e fermezza e non solo, come si suol dire, per «onor di toga». Compressi dal fuoco incrociato delle accuse mosse prima dai rappresentanti di parte civile (avvocati Chabod, Gianni e Giorgio Oberto) e dalla requisitoria del pubblico ministero che ha invocato il carcere a vita per Avenoso, Pira e Pietro Cappello, si buttano sull'unico spiraglio possibile: dimostrare che l'omicidio di Claudio Blessent è stato causato da un evento eccezionale e non voluto. Il nocciolo dell'intera causa è tutto qui: i rapinatori volevano o no uccidere l'ostaggio? «Chi ha sparato a Blessent — sostengono gli avvocati Giancarlo Andreis, Coniglio, Perla, De Santis e Borri — non l'ha fatto con la determinazione di uccidere. L'omicidio va inquadrato nell'ottica di una notte convulsa e allucinata che ha colto tutti di sorpresa, banditi compresi». Qual è infatti il disegno iniziale tudiato nei dettagli dal «commando» ligure piombato a Ivrea la sera del 29 gennaio? La solita rapina che non deve durare più di cinque minuti, una specie di rapido scippo con pistole e fucile. Il giorno prima i banditi lo impiegano per studiare il percorso, per lasciare dislocate in vari punti le auto rubate e quelle «pulite» con cui raggiungere nuovamente Savona. Ma l'imprevisto li coglie non appena varcano la soglia del negozio. Dentro c'è troppa gente, il vigile Alfieri, due commesse, il figlioletto dell'orefice. La reazione di Claudio Blessent provoca alcuni spari a scopo intimidatorio che richiamano sul posto una «pantera» della polizia che intrappola i bandire ». Gli avvenimenti precipitano con il ritmo che sappiamo. L'inutile tentativo di fuggire con l'auto della polizia finisce con l'uccisione del Blessent e la promessa di far fuori tutti gli ostaggi. «Da questo momento incomincia però la riflessione dei banditi», sottolineano i difensori. «Ritrovano la loro dimensione umana ». Chiedono invece di trattale con i loro avvocati e infine si arrendono. E Claudio Blessent? «Ucciso da un colpo sparato da gente stravolta dal panico», i soliti banditi sconfitti dalla paura e dalla fragilità dei nervi. Per Ugo Cappello, al quale sono stati contestati furto di auto e porto abusivo di armi da fuoco, il suo difensore non spende una parola più del necessario. Controversa appare, come abbiamo già scritto, la posizione di Salvatore Malivindi. C'era, non c'era? E' accusato di concorso in omicidio per aver portato sul posto della rapina la banda savonese. Sostiene che il 29 gennaio era a Genova con i genitori. «Una Opel blu intestata a Malivindi è stata vista nei pressi di Ivrea la vigilia della rapina», ha tuonato ieri il pubblico accusatore. «Quell'auto gli era stata rubata» ribattono i difensori. L'accusa aveva però sfoderato una carta a sorpresa: «Malivindi è cugino di Avenoso e Avenoso non si sarebbe spostato dalla Liguria su una vettura rubata al parente». Pier Paolo Benedetto Ivrea. Dino Blessent (Foto « La Stampa », Ugo Liprandi)

Luoghi citati: Genova, Ivrea, Liguria, Savona