"Un pugno di intellettuali,,

"Un pugno di intellettuali,, Così Lin Piao definì i quattro radicali di Shanghai "Un pugno di intellettuali,, « Un pugno di " intellettuali " che governano in maniera tirannica, che si creano nemici dappertutto, che perdono la testa e sopravvalutano le proprie capacità ». Così li definiva un grande erede « mancato » di Mao, l'ex ministro della Difesa Lin Piao, nel documento che aveva preparato il suo tentativo bonapartista del 71, riferendosi a Mao Tse-tung e al suo « entourage » di radicali che sono stati estromessi in blocco dal vertice del potere. Eppure questi « trotskysti » erano sembrati, a turno, poter aspirare alla successione di Mao. Nel '72, Ciu En-lai aveva accennato a Yao Wen-yuan come al possibile erede del defunto presidente cinese. Nel 73, al X Congresso del partito, la spettacolosa ascesa di Wang Hung-wen al terzo posto nella gerarchia del pc cinese aveva segnalato un'energica ripresa dei radicali. E se l'ipotesi di una Chiang Ching « imperatrice vedova » della Cina era apparsa troppo fantasiosa (anche se ora i radicali sono accusati di aver tentato questa manovra), la promozione del quarto membro del « gruppo di Shanghai », Chang Chun-chiao, alla vicepresidenza del partito, a vice-primo ministro e a capo delle strutture del pc nelle forze armate, un anno e mezzo fa, aveva tutta l'aria di essere più solida. In realtà, il potere dei radicali era piuttosto fragile. Chan Chunchiao, Wang Hung-wen, Chiang Ching e Yao Wen-yuan erano gli « ultimi » rappresentanti di un gruppo di « leaders » che Mao aveva raccolto intorno a sé, a partire dal '62, da quando cioè egli aveva incominciato a predisporre una strategia per combattere le tendenze burocratiche e revisioniste del partito. La loro base era Shanghai, una metropoli gigantesca, il centro industriale più avanzato della Cina che, per la sua numerosa classe operaia, per la moltitudine di giovani scolarizzati, per la presenza di strati « piccolo-borghesi » tendenti al radicalismo, Mao considerava una cittadella di rivolta contro l'involuzione politica in atto. A Shanghai, fra il '65 e il '71, Chang Yao e Wang si fondono in un gruppo di potere che riesce a stabilire il controllo sull'amministrazione e sulla direzione locale del parlilo. Nel '68, però, la sinistra esce indebolita dalla rivoluzione culturale. Dei diciassette membri del gruppo originario che aveva preso in mano la rivoluzione, ben dodici sono scomparsi. Il radicamento a Shanghai, cioè in una zona nevralgica del Paese, e l'appoggio di Mao, consentono però ai radicali di resistere al recupero degli ambienti « moderati » del pc e di migliorare, anzi, le loro posizioni al centro: nel '69, al IX Congresso del pcc Chang Chun-chiao, Chiang Ching e Yao Wen-yuan sono eletti al Politburo, Wang Hung-wen al Comitato centrale. Nel 73 al congresso successivo, quest'ultimo diventa il terzo uomo della Cina, subito dopo Mao e Ciu En-lai. Dal vertice, i radicali lanciano ripetute controffensive contro la politica di « normalizzazione » di Ciu En-lai, per difendere le conquiste superstiti della rivoluzione culturale e le proprie posizioni. Punto di forza di tutte queste campagne è Mao: è lui che le legittima, che le incoraggia, che induce la minoranza radicale, a tutti i livelli del partito, ad osare ad « andare contro-corrente ». Ma qui sta proprio il limite principale dei radicali: la loro eccessiva dipendenza da Mao. Scomparso Mao, i radicali hanno ben presto la conferma di essere isolati. Ma perché? Le ragioni sono molle: innanzi tutto essi non erano inseriti sufficientemen¬ te nelle strutture di potere che contano: nella burocrazia statale, negli ambienti che dirigono l'economia, nell'esercito. Controllare i giornali, mobilitare gli studenti e gli operai meno pagati non basta. Nessuno di loro ha, come Hua Kuo-feng, un'esperienza di gestione economica e quindi gli indispensabili legami con questi gruppi di potere. Chiang Chun-chiao, è vero, da più di un anno era vice primo ministro: egli però, l'anno scorso aveva scritto un importati te articolo in cui ammoniva il partito dei pericoli che l'ambizioso programma di modernizzazione varato per il Duemila comportava per l'edificazione di una società veramente socialista. E ciò ha indisposto quanti si preoccupano nelle fabbriche e nelle comuni rurali, dell'efficienza e di far realizzare gli obiettivi del piano quinquennale. Wang Hung-wen dirigeva i sindacati a Shanghai, ma era nota la sua scarsa propensione a tener conto delle rivendicazioni economiche degli operai. Egli, inoltre, insieme a Chang, deteneva importanti incarichi nella struttura militare, tuttavia questo non era sufficiente per controllare un esercito che non aveva dimenticato gli inviti dei radicali, nel '67, ad estendere la contestazione anche nelle file delle forze armate. I militari non potevano tollerare le richieste della sinistra, che voleva fare delle milizie nelle città una forza dotata di armi moderne, né più in generale, i capi dell'esercito approvavano la « rivoluzione continua » che essi proponevano. E qui tocchiamo l'altro grave « difetto » dei radicali: il loro programma, l'eredità di Mao scomoda a moltissimi ambienti, specialmente a quelli del potere. Vale a dire un modello di sviluppo che subordina la crescita dell'economia ad una politica di livellamento delle discguaglianze sociali: un livellamento del potere (ad esempio nelle fabbriche, con l'associazione degli operai alla gestione aziendale e la partecipazione dei tecnici e degli impiegati ai lavori manuali); la graduale limitazione dei privilegi (il contenimento e la riduzione dei dislivelli salariali). E, inoltre, un partito più aperto alle masse esterne, in cui potessero sopravvivere spazi per l'azione di diverse correnti (« è giusto ribellarsi » aveva detto Wang Hungwen al X Congresso), Ora, lutto questo è finito, almeno sembra. Giovanni Eressi

Luoghi citati: Cina, Shanghai