Londra senza l'impero di Mario Ciriello

Londra senza l'impero COME VIVE LA PIÙ AMABILE "MALATA,, D'EUROPA Londra senza l'impero La crisi dell'Inghilterra è scritta nella sua storia - Dei tempi vittoriani ha perduto la potenza e la sicurezza Sopravvivono certi squilibri, gl'impegni della sterlina, giudizi e pregiudizi, persino talune eredità coloniali (Dal nostro corrispondente) Londra, ottobre. Che autunno triste! Non per la pioggia, il vento e le prime folate di freddo che fugano finalmente un'estate che pareva non finire mai. No, non è il tempo né i turbini di foglie morte né la comparsa nelle vetrine delle primissime strenne natalizie: è quello sgocciolio quotidiano di delusioni, di amarezze, di nuove paure. Il premier Callaghan grida: « L'Inghilterra è arrivata allo spartiacque, al momento della verità. Da troppi anni viviamo di prestiti, prestiti di soldi e di fiducia ». L'ex premier Edward Heath ammonisce: « La Gran Bretagna è giunta alla fine della strada. Non abbiamo più scelte, dobbiamo guardare negli occhi la realtà ». Per il leader conservatore Margareth Thatcher ci vorranno dieci anni prima che le cose comincino forse a migliorare. Anche in Italia l'autunno ha portato una nuova austerità, ha investito la nazione con una bufera di cattive notizie, ha disperso le speranze di una rapida guarigione. Anche la lira barcolla come la sterlina, anche il nostro tasso di sconto è salito al 15 per cento portando alle stelle il costo del denaro, anche i nostri redditi (perlomeno i più elevati) sembrano destinati a un periodo d'immobilità. Ma con una differenza. Che l'Italia ha vissuto anni sereni, gioiosi e anche entusiasmanti, ha conosciuto l'ebbrezza della corsa; l'Inghilterra languisce dalla fine della guerra, sempre più esangue, sempre più stanca. Nel '45, l'Italia era un deserto: la Gran Bretagna, una potenza industriale e commerciale. Ma nel '74 il nostro prodotto nazionale lordo era di 153 miliardi e 300 milioni di dollari, 35 miliardi soltanto meno del britannico. Certo, gli inglesi hanno il petrolio del Mare del Nord. Già ne estraggono adesso sui 200 mila barili al giorno, ne estrarranno almeno due milioni per il 1980, diverranno uno dei grandi produttori mondiali. E hanno pure il carbone, in quantità immense, più di ogni altra nazione europea. Al di là dello « spartiacque » — per usare il termine di Callaghan — non ci sono soltanto frane, valanghe e altri disastri, ci sono pure tesori preziosi che faranno della Gran Bretagna una potenza energetica. Ma bisogna arrivare a quella mèta e, una volta raggiuntala, bisognerà estinguere i colossali debiti accumulati per creare da zero l'industria del petrolio, e bisognerà far sì che questa nuova ricchezza non sia sprecata, ma contribuisca invece a quella industriai regeneration globale, senza la quale l'Inghilterra non avrà mai un ritmo costante di sviluppo. C'è chi ha scritto che il petrolio potrebbe rivelarsi un « pericoloso miraggio »: ed è un'ansia legittima. « Pericoloso », perché, nella tetra atmosfera di oggi, potrebbe stimolare l'illusione di una facile ed imminente salvezza. Dopo tutto, la Gran Bretagna, con i suoi 56 milioni di abitanti e la sua complessa, ed inferma, economia, non è il Kuwait, né l'Iran, né la Norvegia. Con il petrolio E quel petrolio sarà una manna, ma non potrà soddisfare tutte le necessità. Già è crollata una teoria, quella ventilata e sventolata da economisti e politici, secondo cui la sola « prospettiva » del petrolio avrebbe restituito all'Inghilterra la fiducia internazionale. Il minerale già zampilla, la produzione è in celere ascesa: ma la sterlina ansima sotto la tenda ad ossigeno e Londra fatica a trovare nuovi crediti. Si torna così al punto già indicato in un primo articolo su questa ennesima crisi britannica. I mali inglesi sono storici, risalgono alla rivoluzione industriale o all'impero e più recentemente alle due guerre, non possono scomparire senza una profonda trasformazione della società. E' la « psiche nazionale » che deve cambiare. Non è questione né di socialismo né di conservatorismo: ci sono fenomeni che trascendono la politica e ancor più l'economia. In Italia, ad esempio, uomini dì prim'ordine, come Guido Carli, se non erro, attribuiscono l'eccessiva tendenza all'intervento statale nell'industria alla tradizionale, istintiva sospettosità dei cattolici verso l'iniziativa privata. Qui invece è una eredità bellica; la tendenza nasceva dalla riluttanza dello Stato — sia che fosse diretto dai laboristi come dai conservatori — ad abbandonare tutto quel sistema di «controis», efficiente ma soffocante, eretto durante la lotta contro il nazismo. Secondo Clement Attlee, il defunto premier laborista, « il popolo britannico è l'unico al mondo capace di versare vino nuovo in bottiglie vecchie senza infrangerle ». Ma è vero? Soltanto in parte. E comunque sarebbe stato assai meglio se, negli ultimi cento anni, la Gran Bretagna ne avesse rotte un po' di quelle vecchie bottiglie. Abbiamo già parlato degli squilibri creati nella società da un sistema educativo che ha prodotto una brillante élite ma non ha mai istruito sufficientemente le masse operaie o rurali; e che, con la sua insistenza sull'ideale del gentleman, ha declassato titoli come quelli di ingegneria, vitali per l'industria. Lo studioso Correli Barnett non considera ancora estirpate né la « cupa ignoranza » né la « lacunosa intelligenza generale » indicate da una Royal Commission del 1868, commissione che concludeva: « Se non si farà qualcosa, né la nostra superiorità finanziaria, né forse la nostra energia si salveranno dal declino ». La cosiddetta « malattia britannica » pervade tutto il tessuto nazionale. I pessimisti sostengono che l'Inghilterra di oggi ricorda un'altra nazione imperiale, la Spagna, la quale, toccato l'apogeo, considerò troppo doloroso rinunciare ai suoi valori tradizionali e alle sue istituzioni. Ovviamente, l'evoluzione è ancora più ardua quando coloro che dovrebbero essere gli innovatori sono i primi ad avversare radicali cambiamenti e condividono molti degli atteggiamenti convenzionali. Bastano due esempi. Fra le politiche che più hanno contribuito a isolare il proletariato industriale e a perpetuare le ataviche idiosincrasie c'è quella delle abitazioni municipali, le council houses, comode ma segregate: e sono vanto dei socialisti. Pure i socialisti, Wilson in particolare, sono stati prodighi quanto i tories nell'elargire titoli e onori, nobilitando illustri sconosciuti e oscure mediocrità. E' il « modo di pensare » che è rimasto al passato, e che ha annullato le brillanti terapie degli economisti e gli sforzi di alcuni politici. Questo « modo di pensare » — lo ha ammesso nei giorni scorsi il Cancelliere dello Scacchiere, Denis Healey — ha indotto tutti, governo, imprenditori e sindacati, a « dividere sempre più la torta nazionale prima d'ingrandirla »: per cui la macchina produttiva, l'industria, già inceppata dalla carenza di ingegneri e di abili dirigenti, s'è fatta asmatica, incapace di competere sul piano internazionale (il deficit commerciale con la Cee è pauroso). La stessa solidità vittoriana di molte istituzioni s'è rivelata spesso negativa. L'alta burocrazia non è stata all'altezza dei suoi compiti. La Bank of England non ha mai mostrato le doti della Banca d'Italia. I sindacati sono animali antidiluviani. Gli immigrati « La gente è prigioniera della storia e la storia prigioniera della gente » ha scritto l'americano James Baldwin: e sembra una diagnosi della Gran Bretagna. Oggi, questa piccola isola, dalla salute precaria, deve ancora reggere quell'eredità imperiale che fa della sterlina una valuta di riserva. Pare che ce ne siano per circa 11 miliardi di dollari nelle mani di banche centrali straniere, di società e di individui. Ogni qualvolta uno di questi creditori è turbato dagli sviluppi in Gran Bretagna, vende subito sterline: e sottopone così la moneta britannica a una pressione che il governo di Londra non è in grado di neutralizzare. Varie volte in passato il Cancelliere dello Scacchiere ha dovuto innalzare il tasso di sconto, con tutte le sue conseguenze ne¬ gative, per non perdere sterline attratte da altri lidi. Poi, gli immigranti. Il nazionalismo scozzese e la guerra civile nell'Irlanda del Nord minacciano l'integrità nazionale del Regno Unito, ma l'affannato Kingdom deve continuare ad accogliere genti del suo ex impero. Il flusso s'è assottigliato, fra non molto gli unici ad essere ammessi saranno i familiari di coloro che già vivono in Inghilterra: ma esplodono frattanto pericolose tensioni. Londra, sterminata megalopoli, è divenuta altresì la meta degli arabi, soprattut¬ to del Golfo Persico, e rimasti sempre anglofili. Quasi 250 mila ne sono giunti quest'estate, trasformando il centro della capitale in una Abu Dhabi nordica, comprando appartamenti, vestiti, gioielli, macchine, tutto. Non sono certo visitatori poveri, ma gli inglesi hanno reagito male, quasi che l'altrui ricchezza mettesse in risalto la propria povertà. Non è facile essere inglese di questi tempi: senza una luce alla fine del tunnel, senza un chiaro punto di riferimento, storico o psicologico, senza una meta che accenda l'animo. Se è vero che l'Italia annaspa tra utopia e anarchismo, la Gran Bretagna non è in una situazione migliore. L'utopia può eccitare con i suoi sogni, l'anarchismo con la sua indisciplina; gli inglesi non hanno invece che un grigio pragmatismo, che però è tutto meno ciò che dovrebbe essere: realistico, pratico e utilitario. Ma anche in questa scena tanto mesta non manca un motivo di conforto. Gli inglesi stanno diventando più simpatici. O meglio stanno avvicinandosi agli altri comuni mortali. Quel famoso best-seller prebellico, che si domandava se gli inglesi fossero veramente « umani », oggi andrebbe riscritto. E poi ormai li abbiamo visti senza le bautte dell'imperturbabilità, della rispettabilità, della freddezza, insomma senza miti. Li abbiamo visti ingannare il fisco; li abbiamo visti ripetere nella City le imprese di Sindona; li abbiamo visti commettere drammatici errori politici; li abbiamo visti non più in frac col monocolo, ma in pigiama con due vecchie ciabatte. Nessuno intitolerebbe più un libro God is an Englishman, « Dio é un inglese », come fece Delderfield. Ma restano valide le parole di Santayana, scritte nel 1922: « L'Inghilterra è un paradiso dell'individualismo, dell'eccentricità, dell'eresia, delle anomalìe, degli hobbies e dello humour ». E si dovrebbe aggiungere: della giustizia. Mario Ciriello Londra. Vecchie auto e nuovi spettacoli sulla strada a Piccadilly (Foto Nazzaro)

Persone citate: Callaghan, Clement Attlee, Denis Healey, Edward Heath, Guido Carli, James Baldwin, Margareth Thatcher, Santayana, Sindona