Ronconi nel "laboratorio" di Giulia Massari
Ronconi nel "laboratorio" IL REGISTA E LA SUA COOPERATIVA A PRATO Ronconi nel "laboratorio" Insegna teatro "con la collaborazione di tutti" - Ricerca su Calderón, spettacolo con Ibse Prato, ottobre. «Ormai ti considerano il regista ufficiale del pei». «Ma da dovi è venuta questa idea? Sono soltanto uno che lavora in un progetto che coincide con quelli del pei. Regista ufficiale potrebbe essere egualmente Mario Missiroli». «Che però di recente è stato accusato di fare teatro tradizionale...». «Una cosa è chiara, per me il teatro come è concepito tradizionalmente, coi suoi carrozzoni, è finito. Sono del resto anni che lo vado ripetendo e anche dimostrando». La consueta dolcezza di Luca Ronconi non appare turbata, però qualche segno di nervosismo c'è, la voce sempre bisbigliante che si alza un poco, come quando un poco perde la pazienza con gli attori, qualche contrazione che appena s'intravede, fra tutto quel pelo grigio che gli copre la faccia e la testa e che però, stranamente, lo fa sembrare persino più giovane dei suoi quarantatre anni, come un giovane che si dà arie di vecchio. Siamo a Prato, a pochi giorni dal congresso, preparato da tempo, del partito comunista italiano, sul tema: «Una politica per il teatro». Una politica onnivora, si è visto alla fine, dove tutto va bene, avanguardia e no, stabili (ma affidati alle Regioni) e iniziativa privata e cooperative e sperimentalismo d'ogni tipo, ma dove l'attenzione è parsa molto puntata sui «laboratori», attraverso i quali si spera di fare un discorso culturale che vada più a fondo: primo e più importante di questi laboratori, quello di Prato, città rossa e ricca, già da molti anni prestigiosa sede teatrale, rivale di Firenze che ormai i pratesi, scherzando ma non troppo, definiscono «il centro storico di Prato». Questo laboratorio, appunto, è stato affidato a Luca Ronconi e alla sua Cooperativa chiamata Tuscolano dal nome d'un quartiere di Roma. La Regione Toscana e il Comune di Prato ne garantiscono l'esistenza, con stipendi che per gli attori si aggirano sulle settecentomila lire al mese, fino al luglio 1978. Un seminario, insomma? La parola infastidisce. «Seminario lo fa uno che sfrutta la propria esperienza, laboratorio è partecipazione di tutti», spiegano. Si va in giro, inseguendo Ronconi smilzo e febbrile e gentile, fra l'ex convento affittato come abitazione a Sesto Fiorentino, il palazzo Novellucci dove ci sono, più o meno, degli uffici e dove vengono affìssi, più o meno, dei programmi, e il Fabbricone, un grandissimo locale vuoto e freddo, alla periferia di Prato, e lo si osserva nei suoi incontri coi gruppi, quelli che fan parte del «laboratorio di ricerca» e quelli del «laboratorio aperto»; volontari, questi ultimi, per lo più studenti, e qualche maestra, qualche operaio. Si lavora su Utopia, il testo di Ronconi fatto di cinque testi da Aristofane, che risale a due anni fa. «O voi, omiciattoli scellerati, come ardite fare una cosa cosi audace ed empia ed iniqua? Dove scappate, dove?». Il dito puntato su questo passo, gli occhi fìssi sul regista, un ragazzo comincia a dire «noi si è pensato, noi allora si è detto», e Ronconi lo ascolta, tracciando delle linee su un pezzo di carta, per conto suo osserva che, se parla un principe, non è detto debba farlo con voce principesca... «Molti si aspettano che io gli insegni a recitare — dice a me —, io invece voglio insegnare a pensare». Arriva un altro gruppo, ragazzi e ragazze, si presentano, dicono che loro lavorano coi burattini. Ronconi che cosa può fare coi burattini. «Ma io non ne capisco niente», sospira Ronconi, ma interviene il suo assistente, Giorgio Marini, assicura che ci penseranno. Questi ragazzi conoscono il testo, 10 definiscono «palloso», hanno scelto Gli uccelli. Ma tutti hanno scelto Gli uccelli, come mai? «Bisogna cercare 11 massimo delle difficoltà», ha sempre predicato il regista: i nuovi ronconiani, scegliendo il testo più noto, non dimostrano, per ora, di accettare l'insegnamento. Utopia non è fatta per essere rappresentata, è solo esercitazione. Il progetto che più sta a cuore a Ronconi è un lavoro, una «ricerca» su Calderón: cioè. La Vida es suefio, di Calderón, La torre dell'austriaco Hoffmannsthal (non ancora tradotta in ita- liano) e il Calderón di Pier Paolo Pasolini. La stessa trama in tre epoche diverse: siglo de oro, primi del Novecento e impianto metafisico, tempi moderni e interpretazione politica. Ma è poi vero che, alla fine, non ci saranno spettacoli? «Si è detto cosi — risponde Ronconi — perché io ho parlato di spettacolo "aperto", ma aperto vuol dire aperto alla ricerca, suscettibile di modifiche. Per alcuni mesi questi giovani lavoreranno sui testi, cercando di capire, di proporre. Quello che noi vogliamo è ricevere qualcosa. Non siamo dei filantropi». E questo tipo di teatro e di lavoro, come viene recepito? A Montepulciano, nel «cantiere» di Henze, non andò poi molto bene, questa estate... «A Montepulciano, si è trattato di un esperimento condotto per un breve periodo. Noi abbiamo tre anni davanti a noi. Contiamo di inserirci nel discorso sulla città, sul territorio... di farne parte... e già si vede da come siamo stati accolti. Inoltre Prato è abituata al teatro, Montepulciano no». Dal Fabbricone, costeggiando il Bisenzio color fango, fra casacce umide, si torna al palazzo Novellucci dove ora il presidente della Cooperativa, Paolo Radaelli, è a disposizione di un gruppo di insegnanti. Donne, per lo più, puntigliose, le facce pallide per lo sforzo della cultura. Le han chiamate per discutere di cinema: per ora espongono i loro problemi, come far funzionare i cinefonim, come attirare i ragazzi. «Quello che davvero posso affermare — continua Ronconi — è ohe loro, < comunisti, non intervengono nel mio lavoro». Forse perché è agli inizi? «Ma io credo che in quel convegno da alcuni definito caotico sia stato detto chiaramente cosa vogliono, e cioè un intervento sul territorio, un coinvolgimento globale». Quella che già chiamano Polkulter, cioè politica culturale territoriale... «Di spettacoli di massa nessuno ha parlato. Cos'è poi uno spettacolo di massa? Cinquemila spettatori? Io credo che la gente, non adoperiamo la orrenda parola massa, si possa coinvolgere anche con la raffinatezza, visto che io vengo considerato un raffinato». E Ronconi, il regista Ronconi, che cosa fa, a parte il «laboratorio»? La verità è che il teatro tradizionale continua a farlo: forse, allora, ce l'ha coi «carrozzoni»? L'interrogativo rimane aperto. In | tanto, c'è in programma, con lo Stabile di Genova, l'Anitra selvatica di Ibsen, e poi il Woyzeck, il Don Carlos, il Trovatore. «L'Anitra selvatica — dice — la faccio per non rimanere fuori dal revival naturalistico. E il teatro d'opera è la mia passione di sempre. Certo c'è un'opera che vorrei fare, Les Troyens di Berlioz, cosi affascinante, con l'idea della città che non si raggiunge, ma occorrerebbero tante, moltissime prove. Ed ecco che torniamo ad uno dei difetti del nostro teatro tradizionale, abborracciato nella preparazione, presuntuoso nella presentazione. E così, ben vengano esperimenti come il "laboratorio". Nel '78, concluderemo con uno spettacolo che s'intitolerà Nel segno della croce. Si sottolineerà il valore, e anche gli inganni, del segno, del simbolo». Già deciso per la croce? «Mai deciso niente. Potrebbe anche essere un segno completamente diverso». Giulia Massari Luca Ronconi
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