Bellomo sarà riabilitato

Bellomo sarà riabilitato Il generale fucilato dagli inglesi nel 1945 a Nisida Bellomo sarà riabilitato Probabile la revisione del processo all'alto ufficiale, condannato a morte sotto l'accusa di aver ucciso un prigioniero di guerra britannico - Bellomo fu vittima di oscuri intrighi della cricca badogliana: a 51 anni dalla morte gli verrà resa giustizia Napoli, ottobre. Nel «cimitero degli ergastolani», brullo spiazzo a strapiombo sul mare di Nisida, sono rimaste poche lapidi. Qui venivano sepolti i detenuti del vecchio penitenziario e le semplici lastre di pietra con un nome e due date raccontano storie di delitti, di passioni, di violenze. Da trentun anni, fra queste tombe, vi è anche quella del generale Nicola Bellomo, fucilato dagli inglesi a Nisida 1*11 settembre 1945 ma a giorni le sue spoglie verranno finalmente traslate, con gli onori militari, al Sacrario d'Oltremare di Bari. Sarà questo il primo passo del governo italiano per la revisione del processo che condannò Bellomo sotto l'accusa di aver ucciso nel 1941 un capitano inglese che tentava di fuggire da un campo di concentramento in Puglia. Brillante ufficiale proveniente dall'artiglieria, giunto al grado di generale di divisione attraverso una lunga carriera nello Stato Maggiore, insignito dell'Ordine militare di Savoia e di una medaglia d'argento conquistata sul Podgora durante la prima guerra mondiale, Nicola Bellomo — nato a Bari il 2 febbraio 1881 — era un soldato di tipo particolare. «Insofferente di ingiustizie e incapace di compromessi», come 10 descrive lo storico Ruggero Zangrandi, non aveva precedent; fascisti né appoggi ai comandi supremi e possedeva un raro rigore morale e professionale. L'annuncio dell'armistizio, nel settembre 1943, Io colse a Bari dove aveva l'incarico di addetto al Comando Territoriale, tenuto allora dal generale Giovanni Caruso. Prima ancora di conoscere 11 testo dell'ambiguo proclama di Badoglio, Bellomo passò all'azione di propria iniziativa: a mezzogiorno del 9 settembre, «privo — come disse poi imprudentemente nella sua relazione — di ujjiciali che dessero affidamento», armò personalmente trecento soldati, compresi alcuni elementi dell'ex milizia, e guidando il combattimento, nel corso del quale venne ferito otto volte, batté i tedeschi: prima di sera i nazisti dovettero abbandonare il porto e la città. Ma Bellomo commise l'errore di inviare al ministero della Guerra un rapporto su questo combattimento (senza tacere che, terminata la battaglia e prima di farsi accompagnare in ospedale, aveva creduto opportuno passare al Comando di Presidio e qui aveva trovato, chiusi in un salone, una quarantina di ufficiali, compreso il generale Caruso) ed illustrare successivamente altri avvenimenti militari di cui era a conoscenza. Benché, subito dopo, gli venissero affidati il comando militare e i poteri civili di Bari e toccasse a lui, il 14 settembre, consegnare la città liberata agli Alleati, diventando così una delle figure più popolari del momento, quei suoi rapporti al ministero non furono dimenticati: combinando il rancore degli ex capi della milizia che Bellomo aveva spodestato con un tragico episodio del quale egli era stato protagonista, si ottenne che la «Military Security» inglese lo arrestasse, il 28 gennaio 1944, quale «criminale di guerra italiano», internandolo a Padula nell'attesa del processo. Nel 1941, infatti, Bellomo aveva presieduto ai campi di prigionieri nel Sud Italia. In uno di questi, a Torre Tresca (Bari), il 30 novembre di quell'anno era avvenuto in luttuoso incidente: due ufficiali inglesi fuggiaschi — il capitano George Payne del «Gloucestershire Hussards» e il tenente R. Cooke del «Queen's Own Royal West Kent Regi ment» — erano stati catturati la sera stessa e, condotti sul luogo dell'evasione allo scopo di individuare come erano riusciti ad allontanarsi, tentarono di nuovo la fuga: la scorta aveva sparato, Payne era rimasto ucciso e Cooke ferito alla natica. Sull'operato di Bellomo, presente al fatto, v'era stata una inchiesta del ministero della Guerra, conclusa col suo pieno proscioglimento. Il processo a carico del generale venne celebrato alla Corte d'Assise di Bari, nel luglio 1945. La deposizione di maggior rilievo per la Corte fu, naturalmente, quella di Cooke. Egli negò che lui e il capitano Payne avessero tentato per la seconda volta la fuga; disse che erano stati feriti di fronte, e non alle terga, e sostenne di aver visto Bellomo far fuoco con la propria rivoltella. Interrogato, il generale replicò che gli ordini del suo Comando Supremo erano stati precisi: in caso di fuga di prigionieri di guerra si doveva sparare. Tuttavia, soggiunse, non lo aveva fatto: «Non perché non ne avessi l'intenzione — spiegò —; anzi, tentai, nel buio, di armare e usare la pistola ma i due ufficiali caddero colpiti dal fuoco della scorta prima che io potessi introdurre il proiettile in canna». I testi italiani a carico di Bellomo furono incerti nelle loro deposizioni. II fante Giovanni Gigante tentò di scagionarsi dall'accusa di aver fatto fuoco sui prigionieri in fuga: «Era il generale che gridava: "Sparate, sparate"»; il soldato Paolo Oliviero si contraddisse più volte e affermò che Bellomo aveva detto a Payne e a Cooke: «Prima di scappare di qui morirete». Il Pubblico ministero Cunning non concluse la requisitoria con una richiesta di condanna ma ricordò che, per la giustizia britannica, è meglio assolvere no¬ vantanove colpevoli che condannare un solo innocente. Tuttavia, alle 13,30 di sabato 28 luglio, dopo un'ora e mezzo di riunione in camera di consiglio, la Corte pronunciò contro Bellomo un verdetto di morte per fucilazione. Perché si giunse a questa sentenza lo potrà dire soltanto la revisione del processo, che il generale stesso ha invocato nel suo testamento («Lo chiedo per la mia memoria — lasciò scritto — e per gli inglesi»). Certamente, dietro le quinte della vicenda vi furono irregolarità, anche procedurali, e colpevoli mancanze che oggi autorizzano a definire la morte di Bellomo come «un delitto di Stato», compiuto da una cricca militare che non gli perdonava di aver denunciato, con l'esempio e con la parola, le sue debolezze e le sue viltà. Bellomo trascorse i suoi ultimi quarantacinque giorni di vita nella fortezza di Nisida. Alle 4 del mattino dell'I 1 settembre fu avvertito che l'ora dell'esecuzione era vicina. Si alzò, si fece la barba e consumò la colazione: uova fritte, formaggio, pane, tè. Alle 6 andarono a prenderlo. Fu ammanettato e condotto sul promontorio dell'isola, dove esistevano tre doppi pali ancora sporchi di sangue di quelli che erano stati fucilati prima: soldati disertori, assassini, spie. «Non copritemi gli occhi — disse il generale —. Voglio essere fucilato sulla posizione militare di attenti». Malgrado la sua richiesta lo bendarono e lo legarono al primo dei tre pali. Un medico gli auscultò i battiti del cuore e gli appuntò sulla giubba un pezzetto di carta bianca «perché il plotone potesse far centro». Bellomo gridò un «Viva l'Italia!» e aggiunse: «Dio perdona me e perdona loro». Poi ordinò, in inglese: «Fate fuoco!». Ma la scarica venne, alle 6,41, dalla voce dell'ufficiale che comandava il plotone di esecuzione. Così moriva l'unico generale italiano che, nel settembre 194'3, aveva consentito agli Alleati di occupare una città senza dover combattere. Ma anche nella tomba il rancore degli alti gradi lo perseguitò perché nella dispensa n. 6, pagina 470, del «Bollettino Ufficiale» del 1947 il ministero della Difesa così illustrava la sua morte: «Fu ricollocato in congedo Vii settembre 1945. Deceduto a Nisida (Napoli) VII settembre 1945 per ferite d'arma da fuoco». Ora, finalmente, è venuto il momento di rendergli giustizia. Giuseppe Mayda li generale di divisione Nicola Bellomo (a sinistra) fucilato dagli inglesi nel settembre del 1945 nell'isola di Nisida